Il profumo alle rose era il più richiesto a Pompei

Nella città è attestata una fiorente attività dei profumieri e solo qui è stato possibile “vedere” tutte le fasi della produzione

POMPEI. Il profumo ha una parte rilevante nella storia dell’uomo. Nel mito è la caratteristica degli dei, che si nutrono di profumo e lasciano scie profumate al loro passaggio, come segno del loro essere liberi dal legame, tutto terreno, della corporalità. Partendo dunque da una sfera religiosa, esso diviene per l’uomo il ponte intangibile verso il divino, in primo luogo attraverso le pratiche funerarie, tese a preservare il corpo dai danni della morte, e poi come strumento della cura del corpo quotidiana e della mitigazione degli odori.

Le più antiche testimonianze dell’uso del profumo rimandano all’Egitto, dove era attestato sin dalla fine del IV millennio a.C., ma è dalla cultura greca arcaica e classica che arrivano la maggior parte delle informazioni sul profumo e il primo trattato tecnico sull’argomento. L’importanza assunta dal profumo nella vita delle popolazioni d’Occidente, visibile in archeologia soprattutto attraverso i rituali funerari documentati dai corredi delle tombe, è testimoniata dalle tante produzioni locali di contenitori per unguenti e profumi. Emblematico è lo sviluppo della produzione del profumo di rosa. La rosa era, per eccellenza, il fiore legato alla bellezza e alla sfera erotica, sacra ad Afrodite, la dea dell’amore e del desiderio. Nel mito, la storia della nascita della rosa è raccontato in molte forme, ma sempre collegate all’amore di Afrodite per il bellissimo Adone, giovinetto destinato ad una morte precoce.

Il profumo di rosa era chiamato rhodinon, nome attribuito, come per gli altri profumi, in base al fiore da cui si traeva l’essenza, la rosa (rhodon). Teofrasto, che ne riporta la formula più antica, lo definisce “leggero e soave”, ritenendolo, per questo, tra i profumi meno intensi, adatti all’uomo piuttosto che alla donna e ne elenca le virtù terapeutiche: corroborante e stimolante, curava il mal d’orecchio e il mal di testa. Plinio ricorda che il profumo di rose, sia per l’abbondanza della materia prima, che per la semplicità della preparazione, era il più diffuso nell’antichità.

Nato in Oriente, giunto in Occidente e in Italia, il profumo di rosa divenne nel corso del IV secolo a.C. una produzione tipica, oltre che di Poseidonia (poi divenuta la romana Paestum), delle città greche di Napoli e di Capua. Oltre alla grande disponibilità di rose, tre circostanze in particolare favorirono lo sviluppo di tale produzione campana: l’ampia disponibilità di olio, in particolare quello di Venafro; la fervente attività commerciale sviluppatasi grazie al porto di Puteoli e alla via Appia (diretta a Roma) e, infine, la produzione su scala industriale dei contenitori in vetro.

Queste attività commerciali e produttive legate ai profumi interessano anche le città vesuviane e in modo particolare Pompei, dove è attestata una fiorente attività dei profumieri. Solo qui è stato possibile “vedere” tutte le fasi della produzione dei profumi, artisticamente rappresentate in un celebre dipinto presente nella Casa dei Vettii, in cui degli amorini lavorano alacremente, oltre che nella vendemmia, nella produzione e vendita di medicamenti e di corone floreali, anche nella preparazione e vendita di profumi, circondati di vasi e ampolle.

Osservando il dato pittorico, a destra si vede un torchio per la premitura degli oli profumati, con accanto alcuni vasi in cui sono posti a macerare i fiori che rilasceranno il loro profumo. Al centro ci sono il banco con il ricettario, la bilancia per le dosi e un armadietto contenente ampolline, simili ai tanti unguentari rinvenuti negli scavi. Infine, sulla sinistra, una eterea fanciulla, che le piccole ali rappresentate sulle spalle fanno identificare come Psichae, seduta su uno sgabello, prova un profumo sul dorso della mano, ovvero nel modo consigliato da Plinio: «Se ne verifica la qualità – scriveva l’autore latino – sul dorso della mano, per evitare che il calore della palma li alteri».

A Pompei si è potuto constatare un uso diffuso delle piante in ogni sfera del vivere quotidiano (dall’alimentazione ai riti religiosi, dalla produzione tessile e delle sostanze cosmetiche e curative, fino alle essenze profumate) ed è stato possibile anche ricostruire con apprezzabile precisione l’utilizzo dei suoli, individuando addirittura le specie botaniche naturali o coltivate. Il dato più importante è che recenti analisi paleobotaniche nella Casa del Giardino di Ercole hanno individuato la presenza soprattutto di fiori utili a produrre profumi, in particolare rose e viole: quindi è probabile che il proprietario fosse un profumiere (non a caso l’edificio è stato ribattezzato come “Casa del Profumiere”). Ciò potrebbe essere confermato anche dal rinvenimento di pezzi di unguentari in vetro e in terracotta sia nel giardino e sia, in numero maggiore, nella vicina bottega, che può essere facilmente interpretata come una “profumeria”.

Altri laboratori e botteghe dello stesso tipo sono stati recentemente localizzati (2011) ed indagati lungo la Via degli Augustali, nei pressi del Foro. Ciò ha di fatto confermato l’esistenza di una vera e propria strada dedicata all’arte della produzione dei profumi nell’antica Pompei. In alcune di queste botteghe sono stati individuati apprestamenti di vasche e strutture finalizzati a lavorazioni, e un gran numero di frammenti di unguentari che hanno anche permesso di datare l’inizio dell’attività di produzione di profumi alla seconda metà del II secolo a.C.

Nella stessa zona del Foro si concentrano anche gli indizi forniti dalle testimonianze scritte di coloro che si definivano “unguentarii”. In una iscrizione elettorale essi, riuniti in corporazione, dichiarano di appoggiare l’elezione di un certo Modestum, mentre si dice “unguentarius” tale M. Decidio Fausto, che fu uno dei sacerdoti della Fortuna Augusta nell’anno 3 d.C. Anche Agatho fu un profumiere, mentre Felicione fu un erborista-lupinarius, come attestano due manifesti ritrovati nella Regione V della città.

Tra le piante più care ai Pompeiani un posto di grande rilevanza spetta alla rosa, che con i suoi rossi petali colora giardini, occhieggia dai soffitti o dai bordi delle fontane. La rosa pompeiana fiorisce ovunque: nei giardini, nelle coltivazioni specializzate dei profumieri, nei muri delle più belle domus della città e per questo si può dire che essa fosse tra i fiori più amati. La rosa aveva una grande molteplicità di usi, da quello di pianta ornamentale con forte significato rituale, alla realizzazione di prodotti a base di petali e boccioli che avevano a che fare con l’alimentazione, la salute e il benessere. Diffusa era anche l’usanza, tra ricchi, di far cadere dall’alto petali di rosa durante i banchetti per stupire gli ospiti o, durante le rappresentazioni teatrali, profumare i velari con acqua all’essenza di rosa.

Lo studio delle fonti scritte e iconografiche ha indicato chiaramente che in Campania (e a Pompei) era coltivato un gruppo numeroso di rose che comprendeva sia specie spontanee che varietà e/o ibridi. Tra queste la rosa rossa, rifiorente, a fiore doppio o a più file di petali appare essere certamente quella più frequente sia nelle rappresentazioni sia nei richiami degli autori classici. La rosa rossa di Pompei è stata generalmente associata alla rosa gallica; il colore rosso acceso e la capacità di rifiorire più volte, caratteri questi chiaramente descritti dagli autori antichi, obbligano a considerare anche ipotesi diverse e suggestive, che devono tener conto che entrambe queste caratteristiche sono tipiche delle rose dell’estremo Oriente. Non è da escludere che nello sviluppo di una rosa rossa, rifiorente e profumatissima vi sia stato qualche contributo di qualche rosa orientale.

Marco Pirollo

Marco Pirollo

Giornalista, nel 2010 fonda e tuttora dirige Made in Pompei, rivista di cronaca locale e promozione territoriale.

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