May B: successo per un’opera senza tempo in scena al Teatro Bellini di Napoli

NAPOLI. May B, celebre lavoro del 1981 della coreografa Maguy Marin, arriva carico d’attesa al Teatro Bellini di Napoli il 10 dicembre 2025 con repliche previste fino al 14 dello stesso mese. Si tratta di uno spettacolo che costituisce una pietra miliare della danza contemporanea e che in quanto tale si porta dietro un’aura.

Il nome prestigioso della coreografa, la capacità dell’opera di attraversare il tempo, il suo linguaggio crudo, la sua capacità di mettere a disagio e, insieme, di incantare e commuovere lo hanno reso uno degli eventi più attesi della stagione e lasciando il pubblico la serata del 10 dicembre con la sensazione di aver assistito a qualcosa di unico.

Nel variegato panorama della danza contemporanea, la forma del teatro-danza, è sicuramente una delle più coinvolgenti e May B riesce a fondere magistralmente le due forme d’arte, a trovare un equilibro meraviglioso tra gesto e movimento, dando vita a qualcosa di estremamente poetico.

Si tratta di un classico nato nei primi anni Ottanta e che riesce ad essere attuale e quanto mai “contemporaneo”, un classico che non si comporta da tale. D’ispirazione beckettiana, costruito come una lunga domanda senza punto interrogativo,

May B non chiede rispetto: lo pretende, quasi lo estorce. Mette di fronte agli occhi la stessa condizione umana, angosciante, violenta, a volte grottesca; il tutto con un linguaggio reale e volutamente anti-virtuosistico. Non c’è la danza come esibizione di bravura, ma la danza come condizione: corpi che faticano, inciampano, resistono.

È un lavoro dichiaratamente teatrale, nel senso più concreto del termine: la coreografia sembra cercare continuamente il punto di frizione tra gesto scenico e frase di movimento, tra recitazione fisica e partitura danzata. Anche quando accade qualcosa di comico (e accade), è un comico che sa di polvere, di sopravvivenza, di umanità messa a nudo.

Uno degli aspetti più forti del lavoro è il modo in cui esso costruisce un mondo che non assomiglia a un luogo reale, ma a un terreno psichico comune: un “fuori” che in realtà è un “dentro”. I danzatori appaiono come figure consumate, quasi spogliate di identità sociale, uniformate da un impasto visivo che richiama il grigio, il gesso, la terra secca. Questo non produce astrattezza, al contrario: produce riconoscimento. È come se Marin dicesse che la nostra individualità è un dettaglio fragile e che, sotto certe pressioni (tempo, abitudine, paura), resti un’umanità più primaria, più simile, più esposta.

Su questo punto May B è spietato: non offre appigli narrativi facili. Non c’è una trama da seguire, uno strutturato impianto drammaturgico, ma una serie di configurazioni, come quadri che ritornano trasformati. La scena diventa un laboratorio di comportamenti minimi: aspettare, trascinarsi, imitare, scacciarsi, aggregarsi, disperdersi. Ed è proprio questa struttura per processioni e addensamenti che trasforma l’attenzione dello spettatore: non si aspetta un colpo di scena, si comincia piuttosto a osservare i dettagli, le variazioni microscopiche, i piccoli spostamenti di energia che fanno cambiare il clima emotivo.

Il cast è composto da dieci danzatori – alcuni dei quali presenti già nella prima rappresentazione – e per loro la dimensione corale è essenziale: May B non funziona come somma di solisti, ma come organismo collettivo che si disgrega e si ricompone.

A tratti sembrano un branco in cui le gerarchie emergono e collassano nel giro di pochi minuti. A tratti un’assemblea di inermi che prova a darsi una regola senza riuscirci; a tratti, ancora, un corteo di superstiti che procede perché non sa fare altro che procedere.

La qualità del lavoro sta nel fatto che l’uniformità visiva non annulla le differenze: anzi, le fa spuntare come crepe. Ogni corpo porta una propria temperatura: c’è chi spinge, chi si ritrae, chi tenta un’affermazione goffa, chi sembra nascere soltanto quando trova un altro corpo su cui appoggiarsi. In questo senso l’ispirazione beckettiana non è letteraria, ma strutturale: l’idea che l’essere umano sia insieme ridicolo e straziante, capace di ostinazione e di resa, e che spesso le due cose coincidano.

Avvicinarsi a May B aspettandosi un andamento da spettacolo di danza tradizionale, genera un fraintendimento nello spettatore: Marin lavora per attrito, non per fluidità. Il ritmo è fatto di ripetizioni che non sono mai identiche, come se la coreografia volesse far sentire il peso del tempo nel corpo. Qui la lentezza non è un effetto estetico, ma una scelta politica: restare a guardare l’inciampo, la fatica, la sproporzione tra desiderio e possibilità. May B non cerca un discorso lineare, ma un linguaggio fisico che ingrandisce il minimo, che rende rivelatore ciò che di solito ignoriamo.

Ne consegue un’esperienza particolare per lo spettatore: a un certo punto si smette di giudicare se succede abbastanza, e si comincia a sentire che quello che succede è, appunto, il succedere stesso del vivere: andare avanti, fermarsi, riprendere, cercare un posto, perdere il posto. C’è poi la musica (Franz Schubert, Gilles de Binche, Gavin Bryars), che non si comporta come un tappeto emotivo continuo: entra, esce, sposta il baricentro.

È come se il suono fosse una seconda scena: non commenta ciò che vediamo, lo contraddice o lo complica. In certi momenti l’effetto è quasi crudele: la distanza tra l’idea di armonia evocata dalla cultura musicale occidentale e la precarietà dei corpi in scena crea una frizione che amplifica la sensazione di disallineamento, di mondo che non coincide con le nostre aspettative.

Uno dei meriti più rari dello spettacolo è l’uso del grottesco senza compiacimento. Le figure sono deformate, impolverate, sghembe, eppure non diventano caricature. Il riso che scappa in platea non è un riso di superiorità, ma un riso nervoso: perché si riconosce qualcosa di vero, e quel vero fa paura. Marin sembra dire che il ridicolo non è un difetto da correggere, ma una componente strutturale dell’umano. E che spesso è proprio il ridicolo a tenerci in vita: l’ostinazione di continuare, anche quando la dignità è diventata una posa impossibile.

Si tratta di un’opera che si fa, in modo sottile, discorso sociale: un gruppo di corpi che cercano una forma di convivenza, oscillando tra esclusione e bisogno reciproco, somiglia fin troppo al modo in cui una comunità reale funziona quando è sotto stress.

Chi ha avuto modo di vedere May B in apertura di programmazione (10 dicembre) ha preso parte ad un racconto condiviso, in un teatro come il Bellini, che intercetta pubblici diversi (prosa, danza, sperimentazione). May B funziona anche come cartina di tornasole: costringe ognuno a scegliere come stare davanti a un’opera che non vuole intrattenere nel senso facile, ma che sa essere magnetica proprio perché non addomestica ciò che mostra.

La sensazione finale potrebbe essere quella di uno spettacolo respingente e non perché sia oscuro, piuttosto perché è insistente. La sua forza sta anche in ciò che non concede: non offre consolazione, non costruisce catarsi in modo tradizionale, non chiude davvero. È un lavoro che chiede allo spettatore una disponibilità rara: accettare la ripetizione come contenuto, non come difetto.

Chi entra in sala cercando una narrazione leggibile o un virtuosismo riconoscibile potrebbe percepirlo come un’esperienza dura, persino ostile. Ma, proprio per questo, la durata e la tenuta degli interpreti diventano parte del senso: la resistenza fisica è un argomento drammaturgico, non una prova atletica fine a sé stessa.

È uno spettacolo che non punta a piacere, e proprio per questo lascia tracce: immagini che tornano dopo, sensazioni che non si risolvono in una frase. Se lo si accetta alle sue condizioni, May B diventa un’esperienza quasi necessaria: un teatro del corpo che guarda l’umano senza cosmetici, con una pietà ruvida e una lucidità che, a distanza di anni, continua a mordere.

Nicoletta Severino

Nicoletta Severino

Danzatrice e coreografa, dirige la scuola di danza "Attitude" di Napoli. Proviene da studi filosofici e collabora con varie testate, trattando temi di attualità, di arte e di cultura.

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