L’arte del profumo nell’antica Pompei

POMPEI. Oggi indossare una fragranza fresca e particolare è segno distintivo di seduzione e ricercatezza, aspetto particolarmente caro anche agli antichi; ma quello che si sa poco è che nell’antichità il profumo serviva a coprire i cattivi odori derivanti da scarsa igiene personale e che le essenze venivano utilizzate in preparazioni terapeutiche per curare alcune malattie.

L’autore Plinio il Vecchio ne attribuisce l’invenzione ai Medi, popolo mediorientale di maghi e scienziati e si dice, secondo tradizione, che venne introdotto in Italia dagli Etruschi. In realtà i centri di importazione dall’oriente dovettero essere diversi vista l’importanza commerciale che dovettero assume le colonie della Magna Grecia per quanto riguarda l’importazione di merci esotiche.

Se inizialmente coprire i cattivi odori con sostanze odorose poteva essere un motivo sostanzialmente igienico, col passare del tempo divenne oggetto di ostentazione di lusso, tanto da essere vietato per motivi “morali” dai Romani.

Il vero motivo era tutt’altro e riguardava fattori economici che vietavano l’importazione di spezie nel II secolo a.C. Secondo la morale romana erano beni effimeri e inutilmente costosi, utilizzati nella cura personale del corpo alle terme e nei ginnasi e in altre occasioni speciali.

Diffusa era infatti l’usanza, tra ricchi, di far cadere dall’alto petali di rosa durante i banchetti per stupire gli ospiti o, durante le rappresentazioni teatrali, profumare i velari con acqua all’essenza di rosa. A diffonderne l’uso nell’Impero fu soprattutto il vetro.

Di questo materiale erano fatti i contenitori e la produzione industriale di balsamari e unguentari contribuì ad abbassare i costi di produzione. Peculiarità che vale ancora oggi: più era preziosa la sostanza contenuta e particolare la forma del contenitore, più alti erano i costi di produzione.

Anche Pompei era famosa nell’arte profumiera. Così come ci svelano diverse testimonianze archeologiche, notevole era l’attività commerciale legata a profumi ed unguentari esportati fino a Paesi lontani. Già negli scavi del 1750 furono trovate numerose testimonianze sull’uso e la fabbricazione di profumi nella città vesuviana, tanto che queste attività vennero impresse su alcuni cicli pittorici della casa dei Vettii.

Nell’affresco parietale sono raffigurati degli amorini profumieri (nella foto in alto) mentre svolgono, all’interno di un’officina specializzata, attività come la preparazione dei profumi, la macerazione delle essenze e la vendita del prodotto finale al pubblico.

Tra gli strumenti utilizzati si notano un torchio per la preparazione degli oli e dei vasi per macerare; al centro vi è un banco con il ricettario per miscelare le essenze, la bilancia per le dosi e un armadietto con piccoli contenitori che si possono ritrovare in frammenti negli scavi delle città vesuviane.

Nella scena è presente anche una fanciulla seduta che odora l’essenza sul dorso della propria mano secondo un’usanza suggerita anche da Plinio, in cui si saggia il prodotto sul dorso per evitare che il calore del palmo ne alteri l’odore.

L’uso del vetro però sembra essere riservato solo esclusivamente al momento della vendita perché, pur essendo impermeabili, all’aria vi era il rischio che le sostanze si destabilizzassero con la luce. Per evitare il deterioramento i contenitori di vetro venivano conservati all’interno di ulteriori contenitori di metallo e ciò sembrerebbe confermato dalla presenza di malachite e azzurrite, sostanze dovute all’alterazione del bronzo, sulla parete esterna di un unguentario pompeiano.

Per approfondire gli studi su forme e contenuti gli archeologi tendono a non svuotare più i contenitori ritrovati, permettendo così di scoprire altre curiosità su un’attività ancora poco conosciuta come l’arte del profumo nelle città vesuviane.

Alessandra Randazzo

Alessandra Randazzo

Classicista e comunicatrice. Si occupa di beni culturali per riviste di settore.

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