Al Bellini di Napoli un Beckett materico: la crudezza dell’assurdo familiare
NAPOLI. Gabriele Russo porta il capolavoro della drammaturgia beckettiana, “Finale di Partita”, al “Bellini”, con una rappresentazione personale e consapevole in cui il doloroso dispiegarsi dell’assurdo viene messo in scena nello spazio del luogo-famiglia.
Non l’astratta e simbolica rappresentazione del vuoto, né lo scenario post-atomico caro alle letture storiche del novecento, ma lo spazio chiuso e soffocante di una dimora persa nel nulla, dove tutto è immobile e senza via di fuga, nella reiterata e perciò dolente ripetizione del medesimo, autentica coniugazione dell’assurdità dell’esistere.
Il Beckett messo in scena da Gabriele Russo diventa in questo modo interprete di un tempo quanto mai attuale e contemporaneo, dove le relazioni familiari si declinano come continua impossibilità di salvarsi e al tempo stesso disperato tentativo di provarci.
La scenografia di Roberto Crea restituisce un senso di materialità al simbolismo astratto dell’opera originale: il fuori irraggiungibile di un mondo esterno che ha cessato di esistere rimane confinato oltre le barriere di un interno povero e consumato, decadente e squallido, che rimanda con ogni suo dettaglio, dalla scelta di impietose luci al neon al mobilio scarno e disadorno, alla miserabile condizione dell’essere umano.
Il trionfo del degrado e della precarietà del vivere permea ogni dettaglio: dalla essenziale povertà improvvisata di una cucina minimale in un angolo, alla ruggine di una vasca da bagno diventata prigione di immobilità per i personaggi di Negg e Nell.
Non più rifiuti astratti imprigionati in bidoni simbolici, ma carnali esseri di sofferenza inchiodati nel degrado domestico, fatti tutt’uno con la miseria della scena. Le luci insistono su una dimensione temporale sempre artificiosa in cui solo la richiesta di medicine calmanti da parte di Hamm sembra scandire l’impossibile fluire del tempo, imprigionando i personaggi in una costante penombra vanamente interrotta dal dischiudersi di finestre su un nulla che non dà conforto, ma solo paura di una ulteriore vacuità, se possibile ancora più spaventosa di quella interna perché sconosciuta.
Il genio interpretativo di Michele Di Mauro nella parte di Hamm restituisce in scena il centro di un rapporto di paternità ambivalente e problematico: il cieco tiranno derelitto, inchiodato alla propria sedia a rotelle nella sua fissità esistenziale, alterna la violenza vocale vomitata verso il figlio adottivo Clov (Giuseppe Sartori) con improvvise richieste di affetto, umanità e tenerezza, con abbracci repentini e inaspettati immediatamente esorcizzati dal rifiuto di qualunque simpatia e indulgenza emotiva, nella constatazione fredda e spietata dell’insensatezza del vivere quotidiano.
I cambiamenti di toni emotivi di Di Mauro si fanno ritmo della disperata complessità emotiva dell’umanità, in cui le esplosioni di rabbia e il sarcasmo sono l’accompagnamento alla dolorosa, reiterata, invincibile e irriducibile fissità immobile della vita umana.
Il rapporto con lo storpio Clov, condannato all’impossibilità di sedersi quasi come dantesco contrappasso della fissità seduta del padre, si connota continuamente in una dinamica di logoramento e dipendenza senza emancipazione e compartecipazione.
Il rancoroso avere bisogno ciascun dell’altro non lascia spazio, come da tradizione beckettiana, all’indulgere del sentimento e della compassione, ma si fa prigione costruita di risentimento e scatti d’ira, disperazione e rassegnazione, velleità di una possibile emancipazione che non arriva mai, lasciando il posto all’abitudine agonizzante del convivere.
La penna di Gabriele Russo ci regala dei Nagg (Alessio Piazza) e Nell (Anna Rita Vitolo) fragili e carnali, abbandonati fra i rifiuti dell’esistenza domestica, occultati alla vista nel tentativo vano di essere dimenticati, eppure in grado di generare dolore ed affetto quando si affacciano a ricordare un passato che non può più trovare posto nell’immobile agonia dello spazio domestico diventato prigione.
Quando Nell termina la sua simbolica, lenta ed estenuante vestizione, sembra per un attimo l’unica a riuscire a trovare salvezza nella morte, abbandonandosi spenta nel suo angolo celato allo sguardo dello spettatore. Più che una salvezza il suo spegnersi manifesta piuttosto l’insensatezza vana degli affanni, un incidente naturale nello svolgersi inutile del sopravvivere: una morte che avviene quasi per sentito dire, lontana dagli occhi e pianta solo dietro le sudicie tende che ne occultano l’accadere.
Quando Nagg si erge con la sua violenza comunicativa nei confronti del figlio cieco, in una fragorosa e crescente esplosione di risentimento e di recriminazioni, la scena è dominata da un potente senso di eredità del doloroso rapporto di dipendenza padre-figlio che sembra quasi trasmettersi immutato e ineluttabile di generazione in generazione.
L’ambientazione in uno spazio domestico regala senz’altro una visione più accessibile al pubblico rispetto all’astratto simbolismo beckettiano. Calare il “Finale di Partita” (l’endgame scacchistico, in cui pur essendosi palesata una sconfitta i giocatori continuano a muovere inutilmente i pezzi in attesa della fine) in un allestimento familiare, anche per mezzo dei dettagli scenografici, avvicina la trattazione dell’assurdo di Beckett ai dolorosi spazi della famiglia, rendendo l’opera in scena in un certo senso più umana, più piena di quel disperato bisogno di tenerezza e sopravvivenza che contraddistingue la apparentemente impossibile missione di esistere.
Il “Finale di Partita” di Russo è in conclusione un allestimento lontano dal cliché beckettiano della trattazione dell’assurdo, reso tremendamente umano da scelte di scrittura consapevoli e originali, da un sapiente allestimento scenografico e da straordinarie prove attoriali dei protagonisti, capaci di trasportare lo spettatore nelle disperate, irregolari, altalenanti e dolorose onde della lancinante immobilità senza vie di fuga del quotidiano.

















