Rampa Nunziante a Torre Annunziata, 8 anni dopo: sotto le macerie non solo corpi, ma verità sepolte

TORRE ANNUNZIATA. Il 7 luglio 2017, alle 6:20 del mattino, Torre Annunziata si è spezzata. Non per un terremoto, non per un’alluvione, non per una guerra. Ma per la mano dell’uomo. Per l’arroganza, la speculazione, l’indifferenza, l’abuso. Un palazzo di quattro piani in via Rampa Nunziante, a due passi dal mare, è venuto giù come carta bagnata. Otto esistenze strappate alla vita. Famiglie cancellate. Storie spezzate nel silenzio crudele di un crollo annunciato.

Annunciato, sì. Perché quel crollo aveva una storia. E in quella storia c’erano voci, denunce, domande mai ascoltate. C’era un’architettura che chiedeva aiuto, e invece è stata spinta al collasso da lavori illeciti, da una cultura del “chiudiamo un occhio”, da un sistema che ha scambiato la legalità per un’opinione. E ancora oggi, in quella polvere che si è depositata sulle fotografie, sugli striscioni sbiaditi, nei fiori appassiti sul cancello, nei segni rimasti sui muri, si sente l’eco di quella tragedia.

Otto anni sono passati. Ma chi vive Torre Annunziata con dignità e coscienza sa che il tempo non è una scusa. Le ferite non si rimarginano con i calendari. Non si ripara l’ingiustizia col silenzio. Le responsabilità amministrative, politiche, civili, restano sospese come una condanna a metà. Le famiglie delle vittime – che non chiameremo “parenti”, ma testimoni e custodi – hanno dovuto farsi pietra, diventare fuoco, per ottenere anche solo il diritto alla verità.

Il processo di Appello, concluso nel dicembre 2024, ha stabilito pene pesanti: 12, 11, 9 anni. Eppure, la sensazione di incompletezza resta. Perché il tempo della giustizia non coincide mai con quello del lutto. La rabbia non si spegne. E non deve.

Perché in questo Paese troppo spesso la rabbia viene archiviata come fastidio, come disturbo alla “normalità”. Ma non c’è niente di normale nel vedere una palazzina sbriciolarsi e poi dover combattere contro l’oblio. Non c’è niente di normale nell’essere costretti a costruire comitati per ottenere quello che dovrebbe essere un dovere istituzionale: la giustizia.

Torre Annunziata non ha dimenticato. Chi resiste lo fa col cuore gonfio e la schiena dritta. Ci sono le veglie, le messe, le marce silenziose. Ma c’è anche chi scrive, chi denuncia, chi si oppone al degrado con la cultura, con l’educazione civica, con l’esempio. Le nuove generazioni camminano in una città che ha conosciuto la morte, ma che vuole essere vita. Non ci sarà mai un 7 luglio che non bruci. Ma ogni 7 luglio può essere un’occasione per scegliere da che parte stare.

Non si invoca vendetta. Ma si esige verità. Si pretende memoria. Si reclama responsabilità. Lo dobbiamo ad Anna, Francesca, Salvatore, Edy, Marco, Pasquale, Giustina e ai suoi due bambini, Francesca e Antonio. Non sono numeri. Non sono nomi incisi su una lapide. Sono volti, voci, abbracci interrotti.

E lo dobbiamo anche a chi, in quelle ore sospese tra il 7 e l’11 luglio, ha scavato senza tregua. Volontari, vigili del fuoco, uomini e donne delle forze dell’ordine, mani nude e occhi lucidi a frugare tra il calcestruzzo come in un’archeologia stravolta, in bilico tra la speranza e la fine, tra la vita e la morte. Non cercavano reperti, ma respiri. E ogni colpo di pala, ogni maceria sollevata, è stata una preghiera laica, un gesto d’amore verso chi non poteva più rispondere. Hanno fatto luce dentro il buio, con un rispetto antico, quasi sacro. E quella luce non può essere spenta dal tempo.

Perché Torre Annunziata è stanca, sì, ma non ammutolita. E se oggi ci sono ancora parole che bruciano, è perché sotto quella frana non è sepolta solo una casa. Ma la possibilità di credere nelle istituzioni, nel diritto a vivere senza paura di morire per l’incuria altrui.

Chi resta non cerca pace. Cerca giustizia. Chi ricorda non vuole commiserazione. Vuole risposte. Chi ha perso non chiede scuse. Chiede cambiamento. Perché la verità, anche se sepolta, può essere riportata alla luce. Sempre. Con mani sporche di terra e cuore pieno di memoria.

E finché ci sarà una voce, una penna, una mano tesa a dire “io non dimentico”, Torre Annunziata continuerà a camminare. Anche zoppicando, anche con le ossa rotte, ma in avanti. Contro l’oblio. Contro la complicità. Contro chi sperava che, col tempo, tutto si spegnesse. Non sarà così. Perché la dignità non crolla.

Noemi Perlingieri

Noemi Perlingieri

Cresciuta a Trevico, il tetto della Campania e paese natio del regista Ettore Scola, si laurea alla facoltà di Archeologia e Storia dell’arte della “Federico II” con una tesi triennale sul Museo Hermann Nitsch di Napoli e una tesi magistrale sul Comando Carabinieri Tutela del Patrimonio Culturale. Il mondo della fotografia la affascina da sempre e fin da giovanissima partecipa attivamente alle iniziative culturali dell’associazione Irpinia Mia. Dal 2014 è in forza presso il Parco Archeologico di Pompei a supporto dell’Area tecnico specialistica - settore valorizzazione del Grande Progetto Pompei. Dal 2023 è Consigliere regionale Icom Campania.

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