5 luglio 1984: quando il cielo di Napoli si fece azzurro per sempre
NAPOLI. Quel giorno l’aria aveva un odore diverso. Come se anche il vento avesse trattenuto il respiro. Era il 5 luglio 1984, e Napoli – la città degli abissi e dei miracoli – si preparava a compiere il suo più grande atto d’amore: accogliere un Dio.
Diego Armando Maradona arrivò così. In una città stanca, scorticata, bollente di rabbia e fame, si aprì un varco di cielo. Entrò in campo al “San Paolo” come si entra in una chiesa senza tetto, e più di 70.000 cuori si inginocchiarono all’unisono. Non aveva ancora toccato un pallone, eppure aveva già toccato ognuno di noi. Era solo un ragazzo, eppure sembrava eterno.
Il microfono gli tremava tra le mani. Non sapeva parlare italiano. Non serviva. Bastò un sorriso, bastò il suo sguardo smarrito e fiero, bastò il suono del nome pronunciato come una preghiera laica da un popolo in estasi: D10S. Napoli lo accolse non come un calciatore, ma come un figlio perduto ritrovato in sogno. Era l’incarnazione della rivincita, del riscatto, dell’impossibile che finalmente si piegava alla voglia di vivere, di vincere, di gridare al mondo: ci siamo anche noi.
Quel giorno fu un parto collettivo. Nacque un’era. Nacque un amore che non conoscerà mai fine, né morte, né oblio. Napoli si riconobbe nei piedi sporchi di fango di Diego, nelle sue cicatrici, nelle sue debolezze. Non un santo, ma un uomo che sbaglierà, cadrà, e si rialzerà con in mano il cuore di chi lo ha amato. Era uno di noi. Ma con la grazia dei numi.
Il biglietto costava mille lire. Sono tutti in attesa che dalla scaletta esca un giocatore tutto ricci. Pantalone azzurro, maglietta bianca della Puma. Eccolo che si fa spazio tra decine e decine di fotografi. Entra sul terreno di gioco e c’è il boato: un’onda che scuote l’intera città, una voce collettiva che sale dal ventre del San Paolo e rompe il tempo.
Quando entrò in campo, il silenzio si fece miracolo. Per un istante, anche l’urlo sembrò trattenere il fiato. Non aveva bisogno di parole: il corpo diceva tutto. La sua corsa, lo sguardo, il gesto incerto della mano. Sembrava dirci senza parlare: “Io sono qui per voi”.
E tanto bastò. Bastò a farci sentire meno soli in un mondo che ci aveva sempre guardati dall’alto in basso. Bastò a farci credere che sì, anche i poveri possono danzare tra gli dei. Era il linguaggio segreto degli ultimi, quello che non si insegna e non si impara. Quello che si sente nel sangue quando la vita ti ha tolto tutto, ma tu hai ancora qualcosa da dare: il cuore.
Diego non è morto. Non può. È ancora qui. Nel sole che incendia dal Golfo a Forcella. Nei cori che non finiscono e nel battito sordo dei tamburi sotto la curva. Vive nella malinconia di chi, guardando il cielo, cerca ancora quel sorriso smarrito e fiero. È nei vecchi che lo ricordano con la voce rotta. È in tutti quegli occhi che portano il suo nome: Diego.
Napoli non smette di abbracciarlo. Gli ha lasciato un altare nel cuore dei Quartieri spagnoli, un murales che sfida il tempo, cori che si levano nei vicoli come canti sacri. Gli ha lasciato promesse, lacrime, figli che portano il suo nome, e silenzi pieni di gratitudine.
Non c’è alba né tramonto, in questa città, senza una preghiera sussurrata a Diego. Perché da quel 5 luglio in poi, nulla è stato più come prima. Napoli lo ha atteso. Lo ha accolto. E ora, ogni 5 luglio, gli dice: “Gracias, Diego. Per averci resi eterni”. Maradona non è il passato. Maradona è il nostro modo di credere ancora nei sogni che puzzano di sudore. È la prova che anche i dannati possono toccare il cielo. E che il cielo, se ha un colore, è ancora e per sempre azzurro. Foto: Sergio Siano.