“Lava” di Francisco Bosoletti: dove la luce è sepolta, la carne diventa tempo
NAPOLI. Ci sono opere che non si guardano: si svelano. Non chiedono attenzione, la pretendono. Così fa la pittura di Francisco Bosoletti: non accarezza la retina, ma la perfora. Non spiega: evoca. E lo fa con la forza ruvida di un’immagine che non si accontenta di essere vista — vuole essere sentita, riconosciuta nel fondo più oscuro di chi guarda.
In “Lava”, la sua nuova mostra alle Gallerie Riunite (via Cavallerizza a Chiaia, 57 – Napoli), Bosoletti non presenta quadri, ma apparizioni. Trentatré visioni che si stagliano come affioramenti dell’anima, come impronte lasciate dalla memoria su corpi che la vita ha già attraversato.
C’è nelle sue figure qualcosa di sacro e di sepolto, come se la pittura fosse un gesto archeologico dell’emozione, un tentativo di riportare alla luce ciò che il tempo ha provato a sottrarre. Come entrare in una chiesa abbandonata o bruciata, in un palazzo in rovina o in uno scavo archeologico: si tira fuori qualcosa di sepolto. Dal tempo, non dall’uomo.
Il negativo — cifra stilistica e spirituale del suo linguaggio — diventa qui più che mai una ferita. La luce non è un dono, ma una mancanza. E l’ombra non è assenza: è verità nascosta, è carne che resiste anche quando il mondo ha smesso di guardarla.
Ogni tela è un corpo. Ogni corpo una soglia. La pittura di Bosoletti non è mai un’immagine da contemplare, ma una tensione da attraversare. I contorni sfilacciati, i toni seppia, l’alternarsi ossessivo di pieni e vuoti non sono scelte estetiche, ma domande.
Chi sei tu che guardi? Cosa riconosci, in questa figura non finita, in questo sguardo in negativo, in questa bocca socchiusa? La risposta non è una parola. È un fremito. Un battito lento nel petto, come se il cuore avesse incontrato la sua ombra.
Bosoletti lavora con la materia come se fosse tempo: la consuma, la stratifica, la scava. E in questa sedimentazione affettiva, ogni opera trattiene qualcosa che sfugge: un ricordo, una perdita, un amore che si è disciolto. Non c’è retorica né compiacimento. Solo una malinconia densa, che profuma di terra bagnata, di pareti consunte, di voci che non trovano più la lingua per dire.
C’è qualcosa di romantico nella scoperta delle sue opere, come nella scoperta dell’arte antica: piccoli scheletri della memoria, che non si capisce subito cosa siano, ma che restano, impressi in negativo nella materia. Pompei sotto la lava. Non è storia scritta, ma respiro rappreso. Non è cronaca, ma impronta. Il fiato del Vesuvio ha inciso segni che non appartengono alla volontà degli uomini, ma a un tempo più profondo e indomabile. È la natura che racconta, che sovrasta, che imprime memoria laddove tutto sembrava svanito.
In quell’affondo nella materia — come nel gesto pittorico di Bosoletti — affiora l’eco di ciò che è stato, senza più bisogno di parole. In queste decadenti rovine, i corpi umani sono carne. Carne del tempo. Bosoletti li dipinge con una sorta di ricorsiva ossessione, un’insistenza barocca sulle luci e le ombre sublimata fino a perdere il contatto con il soggetto stesso.
Prevale la necessità di lavorare le immagini non per rappresentare la realtà, ma questo modo di essere della realtà: desolato, frammentato, irrimediabilmente rovinato. Il negativo diventa un calco che restituisce un’assenza. Lava non è solo fuoco: è massa che scorre, che trascina, che trasforma. Acqua, fango, cenere, sangue, memoria: ogni elemento in essa si confonde e si muove.
Come il tempo, lava non torna mai indietro, ma lascia tracce. E Lava, la mostra, è proprio questo: una colata visiva e affettiva che smuove, che riapre, che riscrive. Un’eruzione silenziosa, dove la pittura non costruisce immagini, ma rivela ciò che resta dopo lo scorrere. Per occhi abituati a mirare i campi vuoti e sconfinati della pampa argentina, la sovrabbondanza del patrimonio italiano e la sua decadenza sono il punto di partenza di una pittura che testimonia, nell’estetica e nella tecnica, il passare del tempo.
Un omaggio che non indulge alla bellezza, anzi la devasta volutamente, con un gesto che è anche una protesta contro le differenze sociali aberranti su cui — oggi come nel passato — certa grandezza, certi palazzi, sontuosi prima di essere sfatti, sono stati costruiti.
La sua arte è un esercizio di ascolto. È il gesto lento di chi non ha paura di fermarsi. Di chi sa che nel silenzio si cela la presenza più viva. E così le figure emergono come dal fondo di un sogno. Ci fissano. Non per chiedere attenzione, ma per ricordarci che ci siamo, ancora. Che siamo anche noi pittura: strato, traccia, rovina, carne del tempo.
Bosoletti non ci mostra un mondo. Ci dà un passaggio. Un varco fragile e commosso verso ciò che resta quando il mondo ha ceduto. Là dove tutto sprofonda, lui solleva immagini. Non per salvarle. Ma per ricordarci che anche noi siamo destinati a svanire. Eppure restiamo.
Info
Gallerie Riunite
Via Cavallerizza a Chiaia, 57 – Napoli
info@gallerieriunite.it
Tel. 08118703970