“Oriri”: a Napoli il viaggio di Francesco Bellina nell’umanità spezzata

NAPOLI. Ci sono mostre che si visitano. E altre che si attraversano. “Oriri”, l’ultimo lavoro fotografico di Francesco Bellina, esposto nella Sala Arengario della Corte di Appello di Napoli, non è solo un’esposizione: è una soglia. Si entra con rispetto assoluto e se ne esce diversi, con un peso nuovo sul petto e uno sguardo inciso dalla verità.

Non è un venire al mondo lieve, Oriri. Nella lingua Bini, “oriri” significa spiriti, incubi. È un verbo che racconta la nascita non come promessa, ma come trauma. Un travaglio oscuro, segnato dalla miseria e dalla paura, dalle radici profonde di riti distorti che legano le esistenze al dolore.

Oriri è la storia di chi viene spezzato prima ancora di partire. Di ragazze, giovani donne, esseri umani che non scelgono ma subiscono. Schiave nel cuore delle città europee, tra il cemento e l’indifferenza del mondo. Bellina entra in questa oscurità con delicatezza e coraggio. Le sue fotografie non giudicano, non accusano. Guardano, con occhi che accolgono.

Le sue immagini sono fendenti e carezze. Raccontano vite segnate dalla distanza, dalla marginalità, dall’invisibilità. Ma lo fanno con una poesia dura, una dolcezza ruvida che non chiede pietà: chiede presenza. Il bianco e nero si fa linguaggio di resistenza. Ogni scatto è una poesia che sa di sale e di sangue, di viaggi che non promettono ritorno, ma invocano senso.

Nel luogo per eccellenza della giustizia, dove la legge ha il volto dell’imparzialità e dell’ordine, Bellina porta il disordine dell’umano. È come se avesse inciso con la luce un atto d’amore e di denuncia sulle pareti del tribunale. Le sue immagini si insinuano tra le aule e i corridoi con la forza di chi sa che non basta giudicare il mondo: bisogna anche ascoltarlo.

Il valore simbolico è profondo e spiazzante. Collocare Oriri nella Sala Arengario della Corte di Appello di Napoli – cuore della razionalità, sede della legge, luogo della verità istituzionale – significa contaminare l’architettura della norma con la fragilità della vita. Qui, dove si decide chi ha ragione e chi torto, Bellina porta storie che la giustizia spesso non arriva a toccare. È come aprire una finestra su ciò che resta fuori dalle sentenze: l’umanità.

A curare la mostra è stata la sensibilità di Chiara Pirozzi, con il coordinamento organizzativo di Acaf – Associazione Culturale Arte e Fotografia, in collaborazione con la Procura Generale della Repubblica di Napoli e con il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati. Un progetto condiviso, voluto, volato alto, che segna un punto nella storia della fotografia sociale contemporanea esposta in spazi non convenzionali.

Bellina, del resto, non è un fotografo che si limita a documentare. È un uomo che si fa testimone. «Fotografare è avere una responsabilità», ha detto più volte. E in Oriri quella responsabilità si fa carne: «Ho cercato – racconta – di entrare con rispetto nelle vite di chi troppo spesso viene cancellato con un colpo d’indifferenza. Non volevo parlare di loro, volevo parlare con loro. Dare spazio. Dare tempo. Dare voce».

Arrivano spesso dal mare, gonfie di dolore, e finiscono sulla strada. Decine di migliaia di ragazze e giovani donne dell’Africa occidentale – soprattutto della Nigeria – vengono vendute come schiave sessuali. Intrappolate in un sistema che mescola reti criminali e religiosità deviata, vengono sottomesse attraverso un rituale finto-sacro, che le lega spiritualmente ai propri aguzzini.

Un giuramento voodoo, che in cambio della “protezione” durante il viaggio, le inchioda alla paura, al silenzio, alla schiavitù. Sembra assurdo che, in pieno Terzo Millennio, un rito ancestrale possa distruggere delle vite. Ma accade ogni giorno.

Il fotografo Francesco Bellina è partito proprio da lì, dove tutto ha origine. In Nigeria. Ha raccolto le tracce, i volti, le storie. Le immagini rare e potenti dei riti sciamanici celebrati prima della partenza – nel fango, nei templi, nella notte – ci raccontano che Oriri non è solo un fenomeno sociale. È un sistema. Un patto invisibile e tenace che annulla la libertà e trasforma la fede in catena.

E tuttavia, Oriri è anche l’inizio di qualcosa. Di un ritorno. Di un sussulto. Di uno sguardo che si spezza, ma resta vivo. Bellina raccoglie questo frammento di luce e ce lo porge. E quando Bellina le affida alla luce, lo fa come si affida un parto. Non quello atteso e limpido, ma un passaggio doloroso, il travaglio lungo e muto della verità. Una verità che lacera, che brucia la pelle, che non consola. Che però salva.

È uno squarcio che si apre per lasciar passare la vita: la carne si fa immagine, il dolore si fa racconto. Un racconto che parla di chi, nel silenzio del mondo, prova a rinascere ogni giorno nonostante tutto: presenze migranti, esistenze dimenticate, anime che chiedono solo di essere guardate davvero.

Alcune fotografie – pur senza mostrare l’orrore in modo diretto – restano nella memoria come segni profondi. Volti, gesti, silenzi, sguardi che chiedono di essere riconosciuti. Che non implorano compassione, ma giustizia umana. Lo fanno con una dolcezza fiera, con una dignità che resiste all’umiliazione.

Non c’è retorica. C’è struggimento. Una compassione che sa farsi carne. Bellina non cerca la spettacolarizzazione della sofferenza, ma la sua verità. Le sue fotografie sono ritratti dell’anima. Persone, non numeri. Vite, non casi. Ogni volto è una dichiarazione d’esistenza contro l’indifferenza.

Oriri è un grido silenzioso, una preghiera laica, un canto spezzato che continua a vibrare anche dopo che si è usciti dalla sala. È il tentativo – forse disperato, forse necessario – di restituire dignità a ciò che è stato strappato, voce a chi non ha microfoni, luce a chi è rimasto troppo tempo nell’ombra.

In questo mondo stanco, in questa città bellissima e ferita, Oriri è un atto d’amore. Un atto che brucia. E quando si esce dalla Sala Arengario, il sole ha una luce diversa. Forse più cruda. Forse più vera. Come se la giustizia, quella vera – quella che non si scrive nei codici ma si sente nelle viscere – fosse passata per un attimo attraverso lo sguardo di un fotografo. E avesse lasciato, su chi guarda, una ferita sacra. Un piccolo, silenzioso, irriducibile inizio. Un Oriri.

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Noemi Perlingieri

Noemi Perlingieri

Cresciuta a Trevico, il tetto della Campania e paese natio del regista Ettore Scola, si laurea alla facoltà di Archeologia e Storia dell’arte della “Federico II” con una tesi triennale sul Museo Hermann Nitsch di Napoli e una tesi magistrale sul Comando Carabinieri Tutela del Patrimonio Culturale. Il mondo della fotografia la affascina da sempre e fin da giovanissima partecipa attivamente alle iniziative culturali dell’associazione Irpinia Mia. Dal 2014 è in forza presso il Parco Archeologico di Pompei a supporto dell’Area tecnico specialistica - settore valorizzazione del Grande Progetto Pompei. Dal 2023 è Consigliere regionale Icom Campania.

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