Giovanni Fontana a Casa Morra: la poesia come corpo, l’avanguardia come resistenza
NAPOLI. “Questa non è una mostra. È un campo di battaglia linguistico. È la parola che esplode, il suono che si fa carne, il corpo che si fa segno”. “Giovanni Fontana: prospettive epigenetiche”, a cura di Giuseppe Morra e Patrizio Peterlini, è un’immersione radicale nell’opera di uno dei più inclassificabili autori del nostro tempo. Una mostra che è frattura, detonazione, organismo vivo. In collaborazione con la Fondazione Bonotto, la Fondazione Morra apre le porte a un’esperienza che non contempla spettatori: qui si è coinvolti, trascinati, alterati.
Fontana non scrive, non recita, non espone: interviene. La sua poesia epigenetica è processo, non oggetto. È corpo in mutazione, gesto sonoro, visione discontinua. La voce si deforma, il ritmo si disgrega, la pagina scompare. Tutto vive nella tensione fra il detto e il mostrato, fra l’ascolto e l’urto visivo. E ogni mezzo – magnetofoni, sintetizzatori, disegni, movimenti – è parte di un’alleanza feroce tra le forme, che sfocia in un linguaggio senza lingua.
Cuore pulsante del programma, dal 6 all’8 maggio, è il ciclo di performance. Tre giorni dove l’arte smette di rappresentare e comincia a lottare. Il concerto elettroacustico “Che la poesia riconosca il suo corpo” non è un titolo: è un comandamento.
La poesia qui si riconosce come corpo, attraversa lo spazio come un urlo che vibra, che scava, che disintegra la quiete. “Videoverbigerazioni sonore” è un attacco sensoriale, un cortocircuito tra immagine e suono. Con “Liber’action”, Fontana entra in scena per azzerare ogni distanza: l’azione è testo, il corpo è scrittura, lo spazio è punteggiatura.
Intorno a lui, artisti come Alain Arias-Misson, Julien Blaine, Serge Pey, Chiara Mulas, Luigi Cinque e Lello Voce non fanno da contorno: esplodono. Ognuno di loro incarna un frammento del nuovo, un’alterazione, un urlo necessario. Sono voci che non cercano consenso, ma collisione. Atti performativi che rifiutano il compromesso estetico e diventano fenditure nel quotidiano.
Il pensiero si dilata anche oltre il corpo vivo delle performance. Con la rassegna “Millenanni Quarto Anno”, il cinema trova la sua vena più inquieta: Il Cinema delle Avanguardie è il nome di un contagio. Duchamp, Richter, Picabia, Bunuel, Satie… non come memorie, ma come detonatori. La sperimentazione degli anni ’60, il movimento Fluxus, l’underground americano, la Pop Art, la Body Art: ogni immagine scelta è una mina nel linguaggio visivo. L’arte qui non decora, interrompe. Non spiega, trasforma.
A rendere possibile tutto questo – a custodirlo, ma anche a spingerlo oltre – è la Fondazione Morra, che non è mai stata un’istituzione inerte ma un corpo vivo, instabile, in continua metamorfosi. Non un contenitore, ma un dispositivo critico. Un luogo dove l’arte non si conserva: si agita. Dove l’avanguardia non è un ricordo da esibire, ma un’urgenza da rinnovare.
A muovere questo organismo, due forze complementari: Giuseppe Morra, artigiano dell’impossibile, regista di un pensiero che non vuole essere archiviato ma agito; la sua visione non dirige, scardina, non accompagna, precipita. Radicato nelle avanguardie storiche, ma sempre proteso verso ciò che ancora non ha nome, Morra è l’innesco continuo di una possibilità altra.
E Isabella Morra, voce che interroga il presente con lo sguardo già rivolto al futuro. La sua cura inquieta non preserva, rilancia; non ordina, accade. È tensione viva, equilibrio sottile tra rigore e ascolto, tra gesto poetico e responsabilità politica. Insieme, fanno della Fondazione una fucina, un tempio laico, un laboratorio dove l’arte non si mostra: si compie.
E non poteva che accadere a Casa Morra (Salita San Raffaele 20/C, Napoli). Qui dove l’arte è rito, e il rito è interrogazione. Qui dove ogni gesto si fa soglia, ogni programma visione, ogni incontro un rischio necessario. Questa mostra – questo accadere – è per chi ha ancora il coraggio di lasciarsi disturbare. Perché è lì che inizia davvero l’opera. Info: www.fondazionemorra.org.