“Cecità”: il nuovo lavoro del coreografo Virgilio Sieni al Teatro Mercadante di Napoli
NAPOLI. “Cecità”, il nuovo lavoro del coreografo toscano Virgilio Sieni, approda al Teatro Mercadante di Napoli il 2 e 3 marzo 2024. Liberamente ispirato all’omonimo romanzo di Josè Samago, il lavoro di Sieni porta in scena una condizione tragica: un virus ignoto arriva sulla terra privando le persone della vista. Cosa succede di fronte a questa privazione che coinvolge tutti? La privazione può trasformarsi in arricchimento?
Lavora su questo Sieni, portando in scena una danza frammentata, decostruita, esperienziale, fatta di sensazioni più che di movimenti, una danza quasi interiore, che vive nelle percezioni del corpo più che nel suo modo di riempire lo spazio.
Quello rappresentato è un corpo che lo sente lo spazio, non potendolo vedere, e che raramente danza. Piuttosto tenta di riscoprire se stesso e ciò che lo circonda, che procede per tentativi, che cerca il modo di interagire con il mondo – ad esso ormai invisibile – e con gli altri altrettanto invisibili, ma non di certo impalpabili, non di certo inudibili: gli altri, il mondo, ci sono e un modo “altro” esiste provando a ridestare gli altri sensi.
Si è detto della danza, ma all’esisto del lavoro contribuiscono decisamente l’allestimento scenico, le luci di Andrea Narese e Virgilio Sieni, i costumi di Silvia Salvaggio, la musica di Fabrizio Cammarata, e le atmosfere.
E sono atmosfere dilatate, impercettibili all’inizio: non è oscuro questo mondo cieco, è fatto di ombre e silhouette fugaci ed evanescenti che si confondono dietro un pannello bianco, che lascia soltanto intravedere figure quasi diafane cercarsi e allontanarsi tra le luci coloratissime, perdendo le connotazioni fisiche, confondendosi con oggetti di ordinario uso umano: un trolley, degli occhiali, un paio di forbici infine.
Su questa immagine il pannello scompare e ci si presenta un universo di macerie, che ricorda un calvario, in cui gli esseri umani appaiono vinti, avvolti in sudari ed illuminati da una luce calda, come in una post-apocalisse.
Sono dei sopravvissuti e devono ricominciare daccapo, in questo mondo nuovo, alba di un’era tragica, dominata dall’invisibilità, devono reimparare a vivere il mondo: strisciano e si trascinano tra frammenti di corpi, tra membra che non vedono, inciampano, cadono, cercano vie di fuga e strusciando spariscono.
In sottofondo una voce di donna, anch’essa sofferta, lontana, che sussurra flebile, poi una serie di animali antropomorfi prendono possesso del palco assieme ad una figura in calzamaglia bianca, quasi clownesca, che tiene una lunghissima asta al vertice della quale è attaccato un microfono che batte contro il perimetro del palco, così che il rumore definisca lo spazio in assenza della vista.
Una scena che titilla l’immaginario dello spettatore riportando alla sua mente qualcosa di Picasso e certe suggestioni dell’astrattismo. Tutto è ora avvolto in un bianco indefinito, dereale, disumano, mentre il suono sembra vagare sospeso nell’etere.
In questo senso d’indefinito i danzatori – Jari Boldrini, Claudia Caldarano, Maurizio Giunti, Andrea Palumbo, Emanuel Santos – cercano una strada, trovano un’interazione tra loro e con gli animali, si riscoprono vivi ed accomunati da un destino comune. Si sostengono e fanno comunità: questa è la strada.
Il lavoro lascia indecisi, sembra restare sempre al di qua, in un dopo che resta quasi un prima, perché quello che succede in scena è sempre tentativo e mai realizzazione piena.
Certo, volutamente, questo è chiaro. Ma lascia sospeso anche lo spettatore, come in attesa che accada qualcosa di incisivo che lo tocchi profondamente, ma quel qualcosa non accade mai. Scorre lentissimo “Cecità”, in un’ora e dieci minuti forse eccessivi e con tempi dilatati oltre il dovuto talvolta.
Nonostante l’allestimento scenico sia sorprendente, i danzatori sembrano quasi non essere i protagonisti perché il resto sovrasta la danza, come se l’intenzione venisse prima della danza stessa, che diventa estremamente astratta ed essenzialissima.
Un lavoro ricco di immagini ricercate, riferimenti eruditi, suggestioni ed idee valide, nel quale quello che sembra mancare è proprio la danza, quella fatta di corpo e fisicità, quella fatta di carne, che fortemente afferma la sua presenza e che qui diviene evanescente.
Il pubblico resta perplesso, ma gli applausi diventano più vigorosi quando sui ringraziamenti finali i danzatori portano in scena una bandiera della Palestina, perché l’arte è innanzitutto impegno sociale e politico e mai mero intrattenimento.