Di morte e rinascita: il nuovo spettacolo di Wim Vandekeybus al Teatro Bellini di Napoli

NAPOLI. “Pazzesco” è la prima cosa che pensi dopo aver assistito al nuovo spettacolo di Wim Vandekeybus: corpi senza volto, teste che vanno a fuoco, sculture carnali a metà tra l’umano e l’artificiale, corpi dinoccolati, disarticolati, corpi che sembrano fatti di plastica.

Ed ecco che pensi una seconda cosa: la danza contemporanea è un terreno mai arido, che produce frutti sempre nuovi, che anche quando sembra aver esaurito le risorse, detto e fatto tutto, costruito e decostruito, riesce sempre ad andare oltre se stessa, ad esplorare frontiere nuove, a spingersi al di là. Ed in questo nessuno è maestro come il coreografo belga Wim Vandekeybus.

In Hands will not touch your precious me – verso tratto da un inno della sacerdotessa sumera Enheduanna alla dea Inanna – in scena al Teatro Bellini di Napoli dal 5 all’8 maggio 2022, Vandekeybus collabora con il performer e artista visivo Olivier de Sagazan – uno dei protagonisti della Biennale di Venezia 2021 – con Erwin Jansper per la drammaturgia e con Charo Calvoper per le musiche.

Otto i danzatori in scena, più gli stessi Vandekeybus e de Sagazan, in uno spettacolo impossibile da definire, con un titolo misterioso, scelto probabilmente durante il periodo di lavorazione dello spettacolo in cui, causa pandemia, le mani dovevano tenersi lontane, caricando di poetico il valore arcano del loro saper toccare.

Sulle prime lo spettatore è disorientato. Si ritrova scaraventato in un mondo del quale gli sfugge la natura, a tratti poetico, come in certi abbracci tra corpi informi, ma cruento per lo più. Un universo quasi distopico, in cui costruzione e decostruzione sono due facce della stessa medaglia, abitato da figure complesse, un po’ corpi, un po’ sculture, che si trasfigurano con l’argilla, che vanno a fuoco, che esplorano il limite, che deformandosi assumono una forma nuova, che incontrano la morte e si riscoprono affamate di vita.

Potrebbe essere una sorta di preistoria dell’umanità – tema ricorrente nelle produzioni della compagnia Ultima Vez – con la discesa negli inferi di Inanna, la sua morte e la sua rinascita, destino che sembra accomunare tutti i danzatori.

I danzatori emettono versi e comunicano mediante segni, come a rappresentare l’origine del linguaggio. Si riuniscono in cerchio, come a rappresentare l’origine della vita comunitaria, conoscono la violenza e la paura, conoscono la morte, le vanno incontro, la rifuggono, la temono, la infliggono, la subiscono.

I corpi dei danzatori, mediante la creazione artistica di de Sagazan, sono trasfigurati: l’argilla e la pittura rosso sangue li trasforma in creature inquietanti, ma i corpi dei danzatori sono corpi che danzano, materia plasmabile di quell’altra creazione artistica che si offre al nostro sguardo che è la danza stessa.

È una danza estremamente dinamica, che nasce dal conflitto, che non conosce sosta, che è frenetica ed impulsiva, eppure padrona di se stessa. Scuote dalle poltrone tutto questo, perché ha un impatto indescrivibile, potentissimo, fisico. Perché è uno spettacolo nel quale si viene inghiottiti, che coinvolge tutti i sensi – dalla puzza di bruciato, ai danzatori che muovendosi schizzano argilla sulle prime file della platea – che genera reazioni emotive confuse.

La figura di de Sagazan è di un impatto scenico fortissimo, una creatura al limite del demoniaco che sembra volersi impadronire ad uno ad uno dei danzatori, fino a snaturarli e possederli.

Lo stesso intento sembra avere la telecamera in scena. Rende potente chi la possiede perché ha la capacità di eternare istanti, decidere le prospettive e le angolazioni da cui guardare e da cui farci guardare – c’è molto voyerismo in scena, non solo nella telecamera – esalta particolari ed ingigantisce momenti che altrimenti nella danza sfuggirebbero, perché nella danza ogni movimento si trasfonde in quello successivo ed in esso muore per non tornare mai identico.

La camera invece ha la capacità di eternare, rendere fermi, fissi, immutabili. Inutile cercare di trovare un senso compiuto in ciò a cui si sta assistendo, sarebbe come cercare di ingabbiare il fluire delle azioni sceniche in qualcosa di razionale che con la creatività, l’energia, la potenza espressiva, il corpo ed il suo essere hic et nunc ha ben poco a che fare.

Lo stesso impianto drammaturgico sembra impossibile da cogliere appieno, perché sono gli stessi corpi in scena a farsi racconto, ed è un racconto deflagrato, in cui drammaturgia e coreografia sembrano coimplicarsi, in cui sono gli stessi corpi a divenire drammaturgici, a riempire lo spazio dell’azione scenica a ridefinire il tempo in cui ci troviamo ed a condurci altrove.

E resta dentro quell’altrove, perché questo non è uno spettacolo che finisce quando si esce dal teatro. È uno spettacolo che si insinua nel subconscio, nel sonno della ragione lì, dove si generano i mostri.

Nicoletta Severino

Nicoletta Severino

Danzatrice e coreografa, dirige la scuola di danza "Attitude" di Napoli. Proviene da studi filosofici e collabora con varie testate, trattando temi di attualità, di arte e di cultura.

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