Giuda, ovvero: il dramma del performer
NAPOLI. Con il progetto NA-SA, torna in Campania, nei luoghi dei suoi natali, Michele Di Stefano, coreografo e performer di spicco nel panorama contemporaneo, assegnatario del Leone d’argento per la danza nel 2014. Il progetto è nato sotto la direzione artistica di Michele Mele nel 2020 e vede coinvolti Regione Campania, Scabec, Teatro Pubblico Campano, Casa del Contemporaneo e Comune di Salerno.
Prima performance del progetto è Giuda, anteprima di stagione di La Casa del Contemporaneo, in scena il 27 ottobre 2021 presso la Sala Assoli di Napoli ed in replica il 29 al Teatro Ghirelli di Salerno. Giuda, tra l’altro, è uno spettacolo nato proprio a Napoli nel 2010, al Teatro Nuovo, ed a Napoli ritorna, undici anni dopo, nella magistrale interpretazione di Biagio Caravano, con la musica di Lorenzo Bianchi Hoesche il disegno luci di Roberto Cafaggini.
Ci consegnano delle cuffie all’ingresso della Sala Assoli e una volta seduti le indossiamo; è come essere avvolti dai suoni, dai rumori, dalle voci fuori campo in lontananza, come essere completamente assorbiti dalla performance fin da subito, come esserci dentro, come farne parte.
La scena è buia, molto buia e spicca un contaminuti con il display rosso fuoco che inizia a segnare il tempo che scorre. Intanto l’universo sonoro direttamente nelle nostre orecchie ci suggerisce visioni astratte e memorie, catapultandoci in una dimensione dal sapore cinematografico ed iperrealistico.
Seduto in mutande, con t-shirt, occhiali scuri, calzini alti e mocassini, appare Giuda. Sta lì, solo, fermo, seduto, che guarda il pubblico attraverso gli occhiali scuri e riempie la scena immediatamente. Sta fermo per un po’, salvo sorseggiare birra in lattina ogni tanto e sputare. È incredibile come un uomo fermo, che beve birra in mutande riesca ad essere molto più performativo di tante cose ballate e piene di movimento.
C’è il suono nelle cuffie che ci accompagna nella visione, mentre Giuda finalmente si alza e salta alla corda e cade e ricade e resta sospeso e si rialza e costruisce e lentamente e minuziosamente distrugge, piazza un microfono su un’asta e si atteggia ad acclamata rockstar, lascia che il suo viso si perda nel fumo.
Siamo lì, tutti con le nostre cuffie, completamente immersi nel dramma di quest’uomo e mi rendo conto che lì, tutti assieme nello stesso posto, condividendo una visione comune, siamo tutti soli, ognuno con le sue cuffie, ognuno con la sua personalissima visione, come se quell’elemento delle cuffie riuscisse a rendere intima una visione collettiva.
E allora penso al performer lì, in scena, e provo a togliermi le cuffie anch’io, ad essere come lui, e capisco: lui non condivide con noi quella dimensione sonora, lui è lì veramente solo, perso nel vuoto, nel silenzio, nel buio.
Senza cuffie sono come lui, che si muove nell’abisso di un silenzio profondo, che non ha suoni di riferimento cui associare le azioni sceniche e che corre il rischio che tutta la performance sia scollata dal sonoro nelle nostre orecchie.
Senza cuffie riesco a sentirlo il suo dramma, il dramma di Giuda, il dramma del danzatore, il dramma del performer: il suo dover fare ciò che deve fare, il suo dover rispettare la partitura, il suo dover eseguire, destinato a ripetersi, il suo conflitto col tempo che scorre, come ricorda il cronometro in scena.
Quel tempo che rischia di sbavare tutto, è qualcosa di capovolto: come se noi spettatori governassimo il tempo della scena, perché quello è solo nelle nostre orecchie; in scena, invece, c’è il tempo della vita, che scorre un minuto dopo l’altro e che deve fare di tutto per combaciare o almeno approssimarsi a quello della scena.
Poi c’è la luce a un certo punto e Giuda compare in piedi, sullo sfondo, circondato da lattine di birre vuote, ma dura un attimo e torna il buio, e con esso quella condizione di sospensione, quell’essere sempre un attimo prima che qualcosa accada, quel prefigurarsi quello che si sa già di dover fare, quell’essere artefice di qualcosa che è già stato creato.
Finisce così la performance ed il dramma del suo interprete al fermarsi del cronometro a 33’’. Il sonoro nella cuffie non c’è più, solo applausi, veri e risonanti; in scena ora c’è l’uomo dietro il performer e quel cronometro fermo a 33’’ che ancora sembra molto ingombrante.