Rifare Bach: l’ultimo lavoro eco-futurista del coreografo Roberto Zappalà
NAPOLI. Si è conclusa, con la prima nazionale di Rifare Bach il nuovo lavoro del coreografo siculo Roberto Zappalà, la sezione danza autunnale del Campania Teatro Festival. Al suo debutto al Teatro Politeama di Napoli (29 settembre 2021), lo spettacolo colpisce immediatamente per la carica e l’impeto emotivi che è capace di generare.
Zappalà afferma di preferire, con le sue composizioni, arrivare al cuore delle persone, piuttosto che al loro cervello e con Rifare Bach ci riesce pienamente: un lavoro scevro di intellettualismi, privo di un forte impianto drammaturgico – cosa alla quale Zappalà ci ha invece abituati, anche grazie alla sua collaborazione lunga 20 anni con Nello Calabrò, che comunque compare anche in questa nuova produzione – un lavoro poetico e ricco di suggestioni.
Non si tratta di un lavoro del tutto astratto, beninteso, basti pensare al sottotitolo: La naturale bellezza del creato, che suggerisce l’idea di una danza vissuta e sentita col corpo. Del resto Zappalà un coreografo di corpo lo è sempre stato.
Trent’anni di carriera ed ottantotto creazioni alle spalle sono abbastanza per esserci fatti un’idea del suo universo coreografico di raffinata sensibilità, sempre attento al bello, con uno spiccato gusto estetico per l’immagine – non è già significato l’immagine? – ma al contempo attento ai temi ed ai ritmi della società, alle tematiche cocenti ed attuali.
Anche Rifare Bach, strutturato secondo i canoni del balletto che vede alternarsi in scena soli, duetti, trii, quartetti ed ensemble, non tradisce il leitmotiv di fondo di tutti i lavori del coreografo: sembra un inno alla bellezza ed una dedica al compositore tedesco, ma racchiude anche un messaggio ecologista e fortemente attuale, frutto dell’isolamento causato dal periodo di lockdown che Zappalà ha trascorso, in parte, in un bosco nei pressi dell’Etna completamente immerso nell’ascolto della natura. Un canto d’amore per la natura e per il suo compositore prediletto, dunque.
La musica di Johann Sebastian Bach in effetti si presta alla danza in maniera naturale per la sua peculiare potenza espressiva e più volte il coreografo vi è ricorso nell’arco della sua attività. Una musica, quella di Bach, che a Zappalà è sempre apparsa perfetta e che in questa nuova produzione diviene motivo centrale.
Nell’arco di un’ora e 10 minuti risuonano, tra le varie composizioni, le Variazioni Goldberg, il Preludio in Do minore, la Cantata n. 29, in versioni a volte inedite, contaminate col jazz e la musica elettronica; ma non c’è solo la musica, c’è anche la natura, dicevamo, con i suoi suoni ed i suoi silenzi: è possibile percepire uccellini che cinguettano, lupi che ululano e qua e là balene, api, cavalli, schiocchi, fruscii, rituali che si ripetono.
Tutto in scena diventa corpo, azione, sensazione, quasi sembra di trovarsi di fronte ad un quadro in movimento. I 10 danzatori (Corinne Cilia, Aya Degani, Filippo Domini, Anna Forzutti, Gaia Occhipinti, Delphina Parenti, Silvia Rosii, Joel Walsham, Valeria Zampardi, Erik Zarcone), vestono attillate tute di velluto colorate, frutto della collaborazione di Zappalà con la costumista Veronica Cornacchini – ex danzatrice della compagnia che conosce pertanto gusti e desideri del coreografo – ed hanno occhi sapientemente truccati, come a sottolineare un’animalità, un’intensità potente e vivida.
Compaiono avvolti da una nube, come al mattino presto, come in un tempo sospeso, come a suggerirci uno spazio altro, un luogo non-luogo, incontaminato e primordiale, popolato da presenze che sono corpi e suoni al contempo, che sono umane e animali: le ginocchia si flettono e le braccia si aprono, i corpi dei danzatori sulle mezze punte sono come seduti, le dita si allungano e le mani sventolano con le dita sventagliate, i gomiti vibrano, le schiene appaiono ricurve ed i bacini bassi, in corpi che cercano una primordiale dimensione di animalità.
Ne viene fuori una danza istintiva e potente, sensuale e molto fisica, una danza carnale ed allo stesso tempo delicata, vibrante di poesia e dalle suggestioni vivide; una danza dal sapore espressionista che ci riporta quasi in un Eden preciviltà, un mondo ancestrale, una preistoria dell’umanità, una dimensione illibata non ancora contaminata dalle brutture dell’odierno, per portarci ad ascoltare la natura e quello che ha da dirci, per indurci a contemplarne la bellezza.
Una danza futurista che tende la mano, ma anche il busto, le braccia, le gambe, il viso, all’ecologia, che racchiude la gioia, così come il dolore. Un campanello d’allarme anche, un modo per sollecitare una certa sensibilità, una danza suggestiva, che suggerisce e non esplicita, che richiama e rimanda piuttosto che dire apertamente, come le cose più belle e potenti.
Di alta poesia il momento finale, quando a cadere su quell’universo incontaminato sono sottili fiocchi di neve che volteggiano danzando anch’essi su la Messa in Si minore Crocifixus evocando l’idea di una purezza.
Poi un pannello nero scende sui danzatori che guardano il cielo rapiti e, mentre piovono petali rossi, due danzatori sul proscenio continuano a muoversi sotto la pioggia di petali, lasciandoci sospesi in quella visione, come nel bisogno che ancora continui.
(Foto: Salvatore Pastore. Fonte: Campania Teatro Festival).