Addio al filosofo Jean-Luc Nancy, uno dei maggiori esponenti del decostruzionismo
C’era un volta la filosofia, quella fatta di puro pensiero, quella da esercitarsi tutta nell’ambito della dimensione eidetica, dell’intuizione pura, dell’intellegibile, quella che condannava l’esteriorità come impura, perché puro era solo il pensiero.
Ma cos’è l’esteriorità se non un pensiero incarnato? E come siamo arrivati a quest’elevazione di essa? È una storia che comincia con la morte di Dio, con buona pace di Nietzsche, quando l’uomo si ritrova solo nel suo corpo gettato tra altri corpi estranei (ma qui è la fenomenologia francese a parlare) e senza nulla a cui aggrapparsi.
È una storia in cui i pensieri di Husserl, Merleau-Ponty, Sartre e Derrida si intrecciano fino a ritrovarsi tutti a salutare Platone ed il mondo eidetico per dire che siamo qui, ora, nel nostro corpo, fatto di carne e che con esso viviamo e che con esso moriamo.
Ciao dualismo, ciao Cartesio, il sensibile e l’intellegibile sono avvinghiati, non esiste l’uno senza l’altro ed a ben pensarci, secoli di storia della filosofia per un’intuizione che sembra essere così immediata: esiste un pensiero puro? Da solo, che non sia il pensiero di un corpo?
Ed ecco Jean-Luc Nancy (nell’immagine di copertina foto di Georges Seguin (Okki), CC BY-SA 3.0, via Wikimedia Commons), classe 1940, professore emerito di Filosofia all’Università di Strasburgo, membro del Collegio Internazionale di Filosofia, laureatosi a Parigi sotto la guida di Derrida, autore di saggi che indagano la politica, la società, l’arte e l’estetica e che fanno di lui uno dei maggiori esponenti del decostruzionismo, che è saputo passare attraverso le complessità della fine del Novecento ed arrivare al nostro secolo con una ricerca intellettuale appassionata e vivida, il cui asse portante è appunto quello dell’esistenza concepita come esistenza corporea.
Non c’è lacerazione tra essere ed apparire per Nancy. Il corpo è il luogo di iscrizione del senso, è l’unica evidenza possibile, è il luogo in cui si rivela l’esistenza. Il corpo, però, capiremo facilmente, non è sempre bello e gaudente, il corpo soffre e si ammala; una malattia, quella del corpo, che non è quella metafisica del pensiero e dell’anima, una malattia che si manifesta con i sintomi, che si insinua nel corpo come un inquilino indesiderato.
L’inquilino invadente nel caso della storia personale di Nancy, l’intruso, era stato già un cuore ammalato e trapiantato ed è stato poi un cancro. Come nella sua patologia dell’esistenza, in cui “Soffro, dunque sono”, il corpo di Jean-Luc Nancy, e dunque Nancy stesso, hanno smesso di soffrire e pertanto di esistere il 23 agosto 2021 a Strasburgo, perché, come lui stesso ci ha insegnato, la vita finisce quando smette di essere manifestazione dell’esteriorità di un corpo.
Un pensiero della finitezza, il suo, in cui l’esperienza della malattia, personalissima e vissuta col corpo, nel corpo e sul corpo, è divenuta esperienza filosofica, in cui vita e morte sono inscindibili (e qui risuona Heidegger che, però, nonostante le manifestazioni psicosomatiche poste a fondamento del suo Essere e Tempo, dell’importanza del corpo era decisamente meno consapevole).
È come se la malattia, il dolore, la sofferenza, introducessero una temporanea sospensione del senso, a preannunciare quella definitiva. Eppure proprio nell’esperienza del dolore sembreremmo aver maggior bisogno di acquisizione di senso: è quello che accade ad esempio nell’arte, quando temporaneamente quel dolore sembra placarsi, sospendersi, per lasciare spazio ad un grido profondo.
La vita, dunque, è sofferenza che sarà interrotta con la morte, ma intanto che è vita, non patisce solo il dolore, gode piuttosto delle libertà di cui dispone. «In un certo senso, ma quale senso, il senso è il toccare. L’esser-qui, fianco a fianco, di tutti gli esser-ci», scrive così Nancy, ne “Il senso del mondo”. Raccogliamo la sua eredità, dunque. Diamo senso a questa nobilissima esteriorità del toccare.
A questo serve la filosofia: il pensiero puro, l’intellettuale ingobbito sul proprio mal di vivere, superiamolo, cerchiamo un senso vero, non teoretico, riportiamolo nel nostro corpo, nella nostra vita e nel mondo.
Riscopriamo il corpo, diamo espressione al Logos incarnato che noi stessi siamo, esponiamoci nudi al mondo, consapevoli di essere presenze impermanenti, contingenze di corpi, non cerchiamo metafisiche consolatorie, esponiamoci allo sguardo, al tatto, all’inquietudine, al desiderio, all’altro, all’estetica, all’eros, alla carnalità, all’esistenza.
Interessiamoci al sociale ed alla politica, perché in quanto corporeità pensanti siamo membri di una comunità e perché l’esistere è un co-esistere. Com-muoviamoci, sentiamo l’appartenenza a quest’evento che è singolare e plurale al contempo, che genera contatto e condivisione profonda, ma mai assemblaggio, come una carezza, che tocca, ma non afferra, che genera contatto, ma non appropriazione.
Facciamolo, prendiamo quest’enorme eredità di pensiero e torniamo all’origine, al corpo nudo e indifeso tra gli altri corpi nel mondo ed accarezziamoci. Questa è alta filosofia, ce lo ha insegnato Nancy e gli dobbiamo la gratitudine che si riserva ai veri maestri, perché ci ha mostrato che filosofare è cosa vivida e che il pensiero può e deve essere audace. Di quest’interrogazione vitale e mai sazia, diventiamo soggetti, singolari e plurali, ridiamo valore al “noi”, scopriamo che l’ontologia è una co-ontologia. Co-esistiamo.