Pompei, lo studio della stratigrafia rivela cosa è successo nei momenti drammatici dell’eruzione

POMPEI. La città antica sepolta dal Vesuvio nel 79 d.C. è in grado di restituire dati scientifici preziosi per tante discipline, non solo per quel che riguarda l’archeologia.

Pompei, ad esempio, è una miniera incredibile di informazioni anche per la geologia e la vulcanologia. Le sequenze stratigrafiche dei depositi di materiale vulcanico che si è accumulato sul suolo pompeiano sono in grado di raccontare nei minimi dettagli cosa è successo in quei terribili momenti dell’eruzione e come è cambiato il paesaggio dopo la catastrofe.

Domenico Sparice, vulcanologo del Parco archeologico, al lavoro nel cantiere di restauro dell’insula dei Casti Amanti, situata nella Regio IX di Pompei, in occasione della Giornata del Paesaggio 2021, ha parlato proprio della stratigrafia analizzata sul posto.

«Qui – ha detto il vulcanologo – si può osservare la sequenza stratigrafica tipica dei depositi dell’eruzione del 79 d.C. a Pompei: fu una delle maggiori e più violente nella storia del Somma-Vesuvio. Nel giro di poco meno di 30 ore vennero eruttati circa 4 chilometri cubici di materiali vulcanici. Essenzialmente si trattava di ceneri e lapilli».

Sono numeri e considerazioni che danno l’esatta idea di quanto dovette essere devastante quella eruzione. Sparice, poi, spiega che la stratigrafia osservata a Pompei «è formata essenzialmente da due unità principali».

«La prima unità – dice l’esperto – sono le famose “pomici” di Pompei, ovvero lapilli che sono caduti dalla colonna eruttiva e hanno una peculiarità: hanno una variazione verticale di colore, dal bianco della base al grigio della parte alta. Questa variazione di colore è dovuta ad una variazione nella composizione chimica del magma durante l’eruzione».

Quel tragico evento si svolse in più fasi e «questi lapilli – riprende il vulcanologo – sono il frutto della prima fase dell’eruzione e cioè quando sul cratere del vulcano si è formata una colonna eruttiva alta fino a 30 chilometri. Molto probabilmente da lì sono caduti i lapilli, sedimentandosi principalmente nel settore sud-orientale del vulcano e seppellendo Pompei sotto una coltre di quasi tre metri di pomice».

E non è tutto, perché la fase più violenta dell’eruzione è raccontata dalla seconda unità della sequenza stratigrafica, come dice il vulcanologo: «La parte “alta” della sequenza è la parte di cenere stratificata che rappresenta i depositi sedimentati da più correnti piroclastiche che hanno invaso l’area di Pompei durante la seconda fase dell’eruzione».

«Questa parte – spiega Sparice – è formata da ceneri che si sono stratificate con un meccanismo di deposito da correnti piroclastiche: queste ultime sono misture di gas, particelle vulcaniche, ceneri e lapilli ad alte temperature che scorrono sui fianchi del vulcano per effetto della gravità sostenuta dai gas».

La fase delle correnti piroclastiche fu il momento più drammatico dell’eruzione: le nubi ardenti avvolsero per sempre Pompei, travolgendo qualsiasi cosa incontrassero sul loro cammino.

«Una di queste correnti piroclastiche – riprende l’esperto – in particolare la seconda arrivata a Pompei, è stata particolarmente violenta ed energetica: era diluita, turbolenta, molto forte. Talmente energetica che è stata capace di abbattere pareti trasversali alla sua direzione di scorrimento. Una corrente talmente violenta che ha sepolto quasi completamente gli edifici di Pompei».

Questa corrente «ha generato molte vittime e di alcune di queste è stato possibile fare i calchi, proprio perché i corpi si sono decomposti all’interno della cenere ed è rimasto, quindi, il “vuoto in negativo” che ha conservato la forma del corpo» precisa il vulcanologo.

L’eruzione, seminando morte e distruzione, sconvolse naturalmente anche il paesaggio con l’incredibile quantità di materiale vulcanico riversato sul territorio.

«Dopo questa corrente piroclastica – conferma il vulcanologo – Pompei era diventata semplicemente una landa desolata. Le successive correnti piroclastiche che si sono susseguite nel secondo giorno dell’eruzione hanno solamente contribuito a creare un mantello sulla città di Pompei già quasi interamente sepolta, con un’ulteriore coltre di cenere che – conclude – ha definitivamente coperto la città sotto almeno sei-sette metri di ceneri e lapilli».

Marco Pirollo

Marco Pirollo

Giornalista, nel 2010 fonda e tuttora dirige Made in Pompei, rivista di cronaca locale e promozione territoriale.

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