I quattro mestieri che meglio hanno raccontato la vita quotidiana nell’antica Pompei
POMPEI. Lavandai, orefici, fornai e profumieri: sono solo alcuni dei diversi mestieri a cui erano dediti gli antichi pompeiani nell’organizzazione sociale ed economica della Pompei di duemila anni fa.
Quelle citate, però, sono probabilmente tra le categorie di lavoratori che più hanno catturato l’interesse scientifico degli studiosi di ogni tempo, dagli archeologi agli economisti.
Ciò è avvenuto non solo perché gli esponenti di questi mestieri esercitavano un ampio potere nella vita pubblica, ma anche per le grandi testimonianze artistiche e culturali che hanno lasciato, utili a comprendere la quotidianità di un’antica città romana.
Si pensi all’avanzata organizzazione produttiva delle fulloniche (lavanderie), delle botteghe artigiane e dei panifici di allora, ma anche ai tanti reperti ritrovati che più di ogni altra cosa raccontano di questi antichi mestieri: dai gioielli finemente lavorati, veri capolavori d’arte, alle forme di pane carbonizzate, passando per preziosi unguentari.
Per quanto riguarda gli Orefici, un’iscrizione sembra testimoniare l’esistenza a Pompei di un collegio di orefici. Anticamente – ha spiegato il Parco Archeologico – esistevano diverse tecniche di produzione dei gioielli, dalla fusione in stampi, alla lavorazione del cesello o a sbalzo fino alla granulazione.
Il cesello e lo sbalzo erano due raffinati metodi di lavorazione in cui si partiva da una lamina in metallo prezioso, sulla quale veniva riportato il disegno desiderato e poi con un lavoro paziente e abile di punzoni e martello veniva reso in rilievo; la differenza principale consisteva nel fatto che nello sbalzo la maggior parte del lavoro veniva eseguita dal rovescio, mentre il cesello vero e proprio veniva realizzato dal diritto.
Anche la granulazione è una tecnica sofisticata già in uso nel Vicino Oriente che si basava sull’impiego di minuscoli granelli di oro che venivano saldati su una lamina di supporto.
Passando a considerare i fornai, invece, bisogna ricordare che a Pompei erano attivi più di 40 panifici con un’articolazione abbastanza regolare. Le macine in pietra lavica, azionate da schiavi o asini, erano uno degli elementi più caratteristici ed erano costituite di due parti principali, che davano una forma“a clessidra”.
Vicino ai forni per la cottura solitamente c’erano ambienti per far riposare la pasta, in modo che il calore potesse agevolarne la lievitazione. Spesso al panificio era associata una stalla, dove risiedevano gli animali da lavoro utilizzati sia per muovere le macine sia per trasportare la merce.
Il pane era venduto in pagnotte tonde già suddivise in “spicchi” per facilitarne il taglio. Sulla superficie era indicato anche il produttore del pezzo di pane, impresso attraverso un marchio.
Nella catena di produzione del pane si partiva con l’umidificazione del grano (con acqua e sale) per ottenere una farina più bianca; seguivano la macinazione e l’impasto della farina con acqua e lievito, la lievitazione della pasta, la sua levigazione e la creazione delle pagnotte successivamente infornate per la cottura.
C’erano poi i profumieri: a Pompei, Ercolano e Paestum sono state identificate delle botteghe con i torchi e i recipienti per la vendita. La Campania, infatti, era molto nota per la sua produzione di profumi su larga scala e la varietà più famosa era il Rhodinum Italicum, ottenuto a partire dalle rose che venivano coltivate nella regione.
Nell’antichità – hanno evidenziato gli esperti del Parco Archeologico – il profumo era composto da due elementi: la parte liquida, costituita da una sostanza grassa come un olio vegetale (di oliva, mandorle o lino), che aveva il compito di amalgamare e conservare le fragranze e le essenze, di piante, fiori, radici o resine che venivano uniti all’olio per conferirgli l’odore caratteristico.
L’aroma si ricavava dalle materie vegetali tramite la pressatura, la macerazione a freddo o a caldo, tre tecniche che consentivano all’elemento oleoso di impregnarsi della miscela di essenze.
I profumi ottenuti venivano sigillati in anfore di varia grandezza e poi trasferiti in portaprofumi di piccole dimensioni e in materiali specifici come l’alabastro, adatti alla conservazione degli aromi.
La sede dei fulloni (lavandai) a Pompei era in un sontuoso edificio nel Foro, a testimonianza dell’importanza sociale della categoria: il mestiere ebbe particolare diffusione e collegi di fullones sono ricordati in numerose città.
I fulloni si occupavano di lavare, smacchiare ed eseguire le operazioni di finissaggio delle vesti: tutte fasi ben documentate in alcuni affreschi. Le stoffe venivano immerse in vasche contenenti acqua mista a sostanze alcaline e depuranti, come l’orina fermentata, all’interno delle quali gli operai pigiavano i panni con i piedi.
Successivamente la veste, lavata in vasca o in acqua corrente e battuta con bastoni per accrescere la coesione tra le fibre, veniva poi pettinata per donarle maggiore morbidezza.
I vapori di zolfo servivano a sbiancare i tessuti, che venivano stesi su gabbie di vimini sotto i quali veniva bruciato dello zolfo. Seguiva la pressatura dei tessuti, che conferiva un aspetto liscio e brillante e, infine, la tintura, con coloranti ricavati da sostanze vegetali o animali.