L’olio d’oliva più antico del mondo si trova a Napoli: è conservato al Mann e proviene da Ercolano
NAPOLI. La bottiglia contenente olio d’oliva più antica del mondo si trova a Napoli, nel Museo Archeologico Nazionale (Mann): ha quasi duemila anni e molto probabilmente proviene dagli scavi archeologici di Ercolano, essendo miracolosamente “sopravvissuta” all’eruzione del 79 d.C.
Ma perché la storia di questa bottiglia d’oliva è così particolare? E cosa c’entra il popolare divulgatore Alberto Angela, volto noto a tutti gli appassionati di archeologia? C’entra eccome, ma procediamo con ordine.
I depositi del Mann, come tutti sanno, custodiscono la moltitudine di materiali recuperati nelle fasi più antiche degli scavi avviati nel XVIII secolo da re Carlo di Borbone in area vesuviana (in particolare a Ercolano e a Pompei), quindi il periodo borbonico ed i decenni successivi.
Tra i tanti reperti conservati nei depositi del Museo partenopeo c’è anche questa bottiglia dalla forma particolare, che ricorda molto da vicino un famoso affresco di Pompei, raffigurante un pezzo di pane e, appunto, una bottiglia di vetro.
Il contenitore vitreo, in particolare, pare provenire quasi certamente da Ercolano ma, analogamente a molti altri reperti, con il tempo è andata perduta l’informazione relativa all’epoca del suo recupero.
Ed è qui che entra in gioco Alberto Angela. Nel luglio del 2018, durante un sopralluogo ai depositi del Mann, lo scrittore e conduttore tv – che stava preparando una puntata la trasmissione Super Quark – notò la bottiglia e si accorse che era ancora piena per più di metà del suo contenuto.
Il recipiente che attirò la sua attenzione mostrava un’enigmatica sostanza solida dalla consistenza cerosa. Così Alberto Angela ha raccontato quel giorno: «Era il luglio del 2018 quando mi trovavo con la troupe nel Mann, per girare un servizio per Super Quark sui suoi magnifici depositi che custodiscono migliaia di reperti rinvenuti soprattutto (ma non solo) a Pompei, Ercolano e in altri siti sepolti dalla drammatica eruzione del 79 d.C.».
«Avevamo appena finito – ricorda ancora – di filmare il settore dei reperti in vetro (bellissimi). E, poco prima di lasciare la stanza, avevo notato una bottiglia di epoca Pompeiana, coricata in una cassetta polverosa: al suo interno intravedevo del materiale solidificato in perfetto stato di conservazione».
Angela capì subito che si trovava di fronte ad un reperto straordinario. «Da tanti anni – racconta – realizzo servizi, puntate o libri su Pompei e avevo intuito subito la portata scientifica e storica di quel reperto dimenticato nei depositi. Quella bottiglia si trovava nel Museo dal 1820, quando era stata scoperta durante alcuni scavi di età Borbonica e collocata in questi sterminati depositi assieme a migliaia di altri reperti. Di quella bottiglia si era poi persa la memoria e, soprattutto, nessuno l’aveva mai studiata».
«Non sapevo cosa fosse quel materiale dentro la bottiglia» dice Angela, che aggiunge: «Essendo la sua superficie un po’ in pendenza, avevo pensato che, in origine, si trattasse di una sostanza liquida e che la bottiglia, nella violenza dell’eruzione, fosse stata sepolta semi adagiata, rimanendo in quella posizione per secoli e portando quindi il liquido a solidificarsi “inclinato”».
«Non è insolito fare nuove scoperte nei depositi dei grandi musei. Ma questa – ricorda ancora Angela – era apparsa subito molto promettente. Sebbene la forma della bottiglia facesse pensare a dell’olio o a del vino, non potendo essere certi sulla natura del contenuto, non ci eravamo sbilanciati. Solo attraverso accurate analisi scientifiche di laboratorio sarebbe stato possibile trovare la risposta».
Nei mesi successivi un gruppo di ricercatori del Dipartimento di Agraria (DiA) ha quindi avviato un’analisi scientifica sul contenuto della “misteriosa” bottiglia di vetro conservata nei depositi del Museo.
La ricerca è stata possibile grazie ad una collaborazione tra Dipartimento di Agraria dell’Università “Federico II” e Museo Archeologico Nazionale di Napoli avente come oggetto lo studio sistematico dei reperti organici conservati nei depositi del Mann. Ebbene, lo studio condotto su quella particolare bottiglia ha davvero ripagato le aspettative degli scienziati coinvolti.
Le ricerche svolte da un team multidisciplinare coordinato dal professore Raffaele Sacchi, del Dipartimento di Agraria, hanno consentito per la prima volta di verificare l’autenticità e caratterizzare l’identità molecolare di un campione di olio di oliva conservato all’interno di una bottiglia di vetro sepolta dall’eruzione del Vesuvio del 79 d.C.
L’impiego di tecniche molecolari e la datazione al carbonio-14 di uno fra i più rappresentativi “articoli edibili” conservati al Mann, hanno permesso di risalire al contenuto della bottiglia di vetro con aspetto del tutto simile a quelle rappresentate in affreschi ritrovati a Pompei.
Gli studi effettuati dal team di ricercatori dell’Università di Napoli “Federico II”, del Cnr e dell’Università della Campania Vanvitelli hanno dimostrato che il materiale organico originariamente presente nella bottiglia era olio d’oliva.
Per effetto delle alte temperature a cui la bottiglia è stata esposta al momento dell’eruzione del Vesuvio e dei profondi cambiamenti che si sono verificati nei quasi due millenni di conservazione in condizioni incontrollate, quell’olio antichissimo porta le tracce di profonde modificazioni chimiche, tipiche dei grassi alimentari alterati.
Rispetto a questi ultimi è sopravvissuto davvero molto poco delle tipiche molecole dell’olio d’oliva. I trigliceridi, che rappresentano il 98% dell’olio, si sono scissi negli acidi grassi costitutivi; gli acidi grassi insaturi si sono completamente ossidati generando degli idrossiacidi che a loro volta, con una lenta cinetica, nel corso di circa duemila anni, hanno reagito fra di loro formando dei prodotti di condensazione, le estolidi, mai osservati in precedenza nei processi convenzionali di alterazione naturale dell’olio d’oliva.
Inoltre la sostanza grassa, nel corso dell’irrancidimento, ha prodotto una moltitudine di sostanze volatili che sono quelle rintracciabili in un olio fortemente rancido, derivanti dalla decomposizione dell’acido oleico e linoleico.
Il profilo degli acidi grassi saturi e quello dei fitosteroli hanno consentito poi di stabilire con certezza che la materia grassa era di origine vegetale e non conteneva grasso di origine animale, ampiamente utilizzato dalle popolazioni dell’epoca, e che si trattava inequivocabilmente di olio di oliva.
«Si tratta – ha commentato Raffaele Sacchi, a capo del team di studiosi che ha esaminato la bottiglia – del più antico campione di olio di oliva a noi pervenuto in grosse quantità, la più antica bottiglia d’olio del mondo. L’identificazione della natura della “bottiglia d’olio archeologico” ci regala una prova inconfutabile dell’importanza che l’olio di oliva aveva nell’alimentazione quotidiana delle popolazioni del bacino Mediterraneo ed in particolare degli antichi Romani nella Campania Felix».