Una giornata a tavola nella Pompei antica
POMPEI. Grazie ai numerosi reperti organici e alle scene raffigurate su affreschi, anche un momento intimo come una cena non ha più segreti per gli studiosi moderni. Nell’antica Roma, generalmente, si facevano tre pasti al giorno: la prima colazione chiamata ientaculum, la colazione del mezzogiorno detta prandium e il pasto della sera detto cena.
Originariamente la cena, anziché essere consumata di sera, avveniva nel primo pomeriggio e costituiva, così come avviene oggi in molti Paesi, il pasto principale della giornata.
I Romani dei primi secoli, consumavano una frugale colazione chiamata vesperna, successivamente, con il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro, la cena venne posticipata ad un orario più tardo. Lo ientaculum veniva consumato verso la terza o quarta ora della giornata, cioè tra le otto e le nove del mattino.
Uno schiavo, appositamente preposto, dava l’annuncio dell’ora per consumare il pasto che consisteva nel consumo di carne, di pane e formaggio, oppure uova. I bambini che si recavano a scuola, acquistavano per strada dolciumi (adipata) dal pistor dulciarius, il pasticcere.
Il secondo pasto della giornata, il prandium, si consumava verso la sesta o settima ora, intorno a mezzogiorno. Esso era un pasto rapido, spesso composto dai resti della cena del giorno prima e poteva consistere in piatti a base di verdure, pesce, uova e funghi.
Per il consumo rapido spesso non si imbandiva nemmeno la tavola e veniva consumato in piedi, senza nemmeno lavarsi le mani. Questo particolare aspetto igienico ce lo racconta Seneca, che si accontentava di un tozzo di pane con carne fredda, verdura, frutta e un buon bicchiere di vino.
Altre testimonianze ce le fornisce invece Plinio il Giovane quando descrive il prandium dello zio, Plinio il Vecchio, che dopo aver consumato rapidamente il pasto, amava concedersi un breve riposo stendendosi, durante l’estate, al sole.
Era la cena il momento più importante della giornata, spesso trascorsa in compagnia di amici che si riunivano intorno ad una tavola ricca di ghiottonerie o modesta, a seconda delle disponibilità economiche del padrone di casa. Quando i soldi erano davvero pochi, spesso gli invitati portavano da casa il loro contributo in cibo.
Numerose e animate sono le scene di convivialità riprodotte su affreschi provenienti da Pompei e dai siti vesuviani. Tre di questi, che provengono dalla Casa del Triclinio a Pompei, vedono dipinti diversi momenti di una serata a cena con ospiti.
Convitati che occupano i letti, schiave e suonatori, irrompono sulla scena tra vivaci colori, giochi simposiastici e iscrizioni a mo’ di fumetti che il più delle volte invitano a godere della vita e delle gioie del vino e del canto. Ma diverse sono anche le raffigurazioni di vere e proprie nature morte con frutti, prodotti alimentari e vettovaglie di epoca romana.
Nel tablinio dei Praedia di Giulia Felice, per esempio, al di sopra di grandi pannelli gialli e rossi, appaiono diverse sequenze di nature morte con pane, focacce e pesci che nuotano nel mare e ci permettono di conoscere le specie più diffuse, tutte provenienti dal Mediterraneo, e quelle più apprezzate a tavola.
Ma cosa si mangiava durante una cena romana? Per quanto riguarda i menu, Seneca, Plinio, Marziale e molti altri autori, ci hanno tramandato piatti molto semplici, ma in banchetti importanti con ospiti di riguardo le liste delle portate erano molto complesse e lunghe.
La cena era suddivisa in due momenti. Un primo, costituito dal pasto vero e proprio, con prevalenza di alimenti solidi e consumo moderato di bevande; un secondo, che generalmente durava di più, in cui si poteva alzare il gomito e intrattenersi con attrazioni di vario genere.
La portata era chiamata ferculum, una parola che originariamente indicava il contenitore del cibo, il piatto. Successivamente, per metonimia, divenne anche il contenuto del piatto, cioè la portata vera e propria. In una cena di media importanza, in generale, venivano portati tre fercula, ma con l’importanza della cena aumentava il numero, fino a raggiungere le sette portate.
Si cominciava con la gustatio, una sorta di aperitivo composto da antipasti pepati e stuzzicanti che servivano a risvegliare il palato. Venivano servite uova, zucche, verdure, pollo ed ostriche, accompagnate da vini artificiali preparati con assenzio, violette o petali di rose.
L’aperitivo, alcolico, spesso era costituito da vino al miele, il mulsum, da cui deriva il nome dato successivamente al momento della gustatio, promulsis appunto. Alla gustatio, seguiva una portata composta da pesce, carne e verdure chiamata prima cena. Ne seguiva un’altra chiamata altera cena, composta da arrosti, generalmente cacciagione o da piatti esotici.
Si terminava con un dessert. Questo momento era chiamato secundae mensae perché, come in Grecia, venivano portate nuove tavole. I Romani, però, si limitavano a sostituire la tovaglia, quando c’era, o a sostituire i piatti sporchi e a spazzare per terra. La portata era costituita da frutta fresca e secca e soprattutto da dolci.
La famosa “cassata di Oplontis” è stata dipinta sulle pareti della villa di Sabina Poppea ad Oplontis di cui conosciamo anche la ricetta antica scritta in latino. Durante la cena, inoltre, non era raro trovare il padrone di casa ai fornelli. Veniva a costituire una sorta di hobby e di sorpresa piacevole per gli ospiti.
E per concludere piacevolmente la lunga nottata, non si usciva dalla casa dell’amico senza aver ricevuto un dono. “Ciascuno dia al suo invitato il regalo che gli si adatta” diceva Marziale nei suoi Epigrammi e ne enumera anche la diversa tipologia. Gli apopherata, così erano chiamati, potevano consistere in profumi, articoli da toeletta, coltelli, ombrellini, cassette, lampade, articoli per lo sport, indumenti, vasellame, stoffe o cibi.