Pompei come luogo d’ispirazione per la scrittrice partenopea Miranda Miranda
È uscito da poco il suo libro “Una vita da signorina”, con i ricordi dell’infanzia e poi dell’adolescenza tra i quartieri di Napoli
POMPEI. «”La nube si precipita sulla terra, avvolge il mare, nasconde ai nostri occhi l’isola di Capri, circondandola e facendoci perdere di vista il promontorio di Miseno. Mia madre mi supplica e mi ordina di cercare un mezzo per salvarmi, dimostrandomi che ciò sarebbe facile alla mia età; che ella, al contrario, appesantita dagli anni e dalla corporatura, non potrebbe affatto seguirmi; che ella morrebbe contenta, purché io mi fossi salvato dalla morte. Io dichiaro che non saprei vivere privo di lei, la prendo per mano, forzandola ad accompagnarmi… La cenere cadeva sopra di noi… Non appena ci eravamo allontanati, le tenebre aumentarono a tal segno, che si sarebbe creduto trovarsi in una di quelle notti nere e senza luna o in una camera ove i lumi fossero spenti… Vi erano di quelli che consideravano questa notte come l’ultima, come la notte eterna che dovesse inghiottire l’universo, e per tema della morte giungevano ad invocarla, implorando il soccorso dei Numi, che credevano più non esistessero”. Per la strada che conduceva a Via dell’Abbondanza, ancora una volta il re trovava nelle parole che Plinio il Giovane scrisse a Tacito e che egli conosceva quasi a memoria, una dolorosa rispondenza. Guardandolo, però, nessuno avrebbe potuto indovinare i suoi pensieri di tenebre. Sull’acciottolato diseguale, i cui mattoni roventi pareva rimandassero al cielo il calore accumulato, il cammino era ben poco agevole e il sole era tanto abbondante da far pensare che lo stesso nome della strada fosse riferito a tale profusione, che si riversava a fiotti sulle case, sulle strade, sulle teste dei cortigiani che apparivano alquanto provati». È un passo tratto dal racconto “Il pranzo del re” di Miranda Miranda (Marotta editore, Napoli, 2000), ambientato a Pompei, un luogo che ha esercitato il suo fascino anche sulla scrittrice partenopea.
Nel suo racconto “Il pranzo del re” narra ad un certo punto di una gita a Pompei, agli Scavi. Quale è il suo rapporto con questo luogo? Ha un ricordo, un’emozione da condividere?
«A Pompei torno costantemente; trovarsi nelle antiche vie, nelle ville e nelle case che ancora conservano qualcosa della vitalità che le ha animate, è come un bel libro che diventa parte della tua identità e che leggi e rileggi nel tempo: Pompei è un luogo in cui bisogna tornare nelle varie età della vita, perché è capace di farsi guardare con occhi sempre diversi. Un’occasione, però, è rimasta nella mia memoria come la più emozionante in assoluto: un pomeriggio di piena estate, l’arena dell’anfiteatro romano e la rappresentazione, nell’ambito di una rassegna di allora, de “La vita è sogno” di Calderon de la Barca. Un’emozione indescrivibile, entusiasmante: forse per il sole obliquo del tramonto sulle pietre e l’avvicendarsi della notte (sole e luna, come in uno dei versi del dramma), o forse per la recitazione impeccabile di Marina Malfatti, un’attrice oggi purtroppo dimenticata, fatto sta che un dramma barocco sulle rovine di Pompei fu per me una commistione di rara suggestione. Era l’agosto del 1976 e, nonostante il tempo trascorso, fu un’emozione che non ho più dimenticato».
È invece uscito in questi giorni il suo nuovo libro, il saggio narrativo “Una vita da signorina”. E qui, tra le pagine, fanno capolino i quartieri napoletani del Vomero e di Materdei, con i ricordi dell’infanzia e poi dell’adolescenza. Che legame ha con Napoli, e in cosa crede sia cambiata negli anni? Del resto proprio a Napoli era ambientato anche il suo romanzo “Il mare sospeso”…
«Sì, Napoli è sempre presente nei miei libri perché il legame che ho con questa mia città è viscerale, carnale, senza filtri, un vincolo che ho avvertito crescere sempre di più negli anni in cui ne ho vissuto lontana. È un’appartenenza assoluta, dalla chimica indiscutibile, istintiva insomma, un po’ come il legame che si prova per un figlio neonato o un animale prediletto. Il che non significa non vedere le sue negatività, le impotenze e, spesso, purtroppo, le accidie e le indifferenze. O, come sta succedendo, il cambiamento veloce e micidiale che sta avvenendo in questi ultimi tempi: il turismo massiccio e improvviso, la globalizzazione che finora non aveva inciso più di tanto, tutta una serie di affarismi, stanno cambiando il volto della città. Sì, Napoli sta cambiando male e lo dico con vero dolore».
Tornando alle signorine del suo ultimo libro, si sta assistendo di recente al ritorno in tv di fiction ambientate tra gli anni ’50 e ’80. Come spiega lei la loro popolarità e il successo presso il pubblico? Nostalgia di quegli anni?
«Io credo che in tutte le epoche ci sia, a un certo punto della vita di una determinata generazione,uno sguardo all’indietro, un tentativo di riappropriarsi di ciò che è stato. E ciò è ancor più vero adesso, in questi anni in cui abbiamo perduto via via sempre più libertà, sicurezza e gioia di vivere, grazie al baratro in cui ci ha gettato l’appartenenza a quest’Europa di loschi banchieri. Le fiction che riguardano quel trentennio 1950-80 parlano di un’Italia in crescita, anche se di una crescita spesso illusoria, fiera dei traguardi ottenuti dal dopoguerra in poi, di un Paese ancora capace di sperare, ancora orgoglioso e tanto più libero, di tempi in cui nella nostra dimensione esistenziale era sconosciuta la precarietà che oggi è arrivata a corrodere gli ambiti più vitali di un individuo. Si tratta di una nostalgia privata, certo, ma anche di una nostalgia “sociale”».
Dove nasce, invece, il suo desiderio di raccontare quell’epoca, e di scrivere in questo saggio su una fortunata collana come quella della ” Biblioteca delle signorine” edita da Salani? Quali fonti ha consultato?
«Il desiderio di scrivere di questa collana editoriale mi è nato col tempo. In fondo, questo saggio l’avevo nella testa da sempre, perché ho cominciato a leggere i romanzi della “Biblioteca delle Signorine” che avevo all’incirca una decina d’anni e poi ho sempre continuato. E mentre li leggevo, le curiosità che mi destavano mi hanno portato ad approfondire i loro temi, a rifletterci, a rilevarne sempre di più il valore intrinseco che è storico, antropologico e documentativo, oltre a quello psicologico. Finché arrivata ad averne letti (e collezionati) oltre 300, ho realizzato che i romanzi per signorine hanno rappresentato il laboratorio editoriale più longevo e ricco di tutta la letteratura mondiale, un bacino formidabile di consultazione per chiunque volesse approfondire il costume, gli usi, gli umori di tutta la civiltà europea che va dagli ultimi anni dell‘800 fino agli anni ’50. Così mi è venuta voglia di farlo sapere e in questo desiderio ci è entrata anche per me la voglia di rivolgermi a un passato dove la vita quotidiana era infinitamente più semplice e quieta, fondata su sicurezze che, pur essendo a volte oppressive, erano comunque solide e davano solidità, dove il rispetto per gli altri era un valore importante, dove esisteva ancora una cognizione della bellezza e dell’eleganza. E ci è entrata anche la voglia di raccontare l’Europa com’era, il continente in cui, all’epoca di questi romanzi, si era stratificata in secoli di storia una civiltà colta e raffinata, irripetibile. Le fonti che ho consultato sono presenti quasi del tutto nella bibliografia in fondo al libro: infatti, è una bibliografia per la maggior parte antiquaria, che fa capo soprattutto ai libri che sono da generazioni nella mia famiglia, dall’enciclopedia universale del mio bisnonno alle memorie di viaggio di Guglielmo Gordio, uno dei pionieri delle spedizioni in Africa, che era tra i libri che mio padre studiò per la sua laurea in Scienze Coloniali. Ho anche consultato biografie e testi di cinema, di antropologia, di storia, di cui alcuni hanno fatto parte, come “Religion and the decline of Magic” di Thomas Keith, del mio corredo universitario, o anche testi dell’infanzia, come quelli di Collodi. Oltre, naturalmente, ai romanzi della Biblioteca: ne ho citato un centinaio, scelti tra quelli più significativi».
Molte delle scrittrici e degli scrittori che si celano dietro questi romanzi vantano vite davvero avventurose. Quale è quella che l’ha colpita di più? Un aneddoto da svelarci?
«È vero: l’ultimo capitolo del saggio, che non avevo progettato, si è praticamente imposto perché, via via che approfondivo le vite degli autori, mi rendevo conto che costituivano affascinanti storie nella storia. Una specie di scatole cinesi queste biografie che si rimandavano l’una all’altra, finendo per rappresentare quel magnifico mosaico che è stata la civiltà europea e di cui quasi tutto oggi è dimenticato. Una delle biografie più interessanti è sicuramente quella di Guy Chantepleure, pseudonimo di Jeanne Caroline Augusta Violet, donna di grande talento e di grande fascino, ma soprattutto dalle molte esistenze: scrittrice famosa già a 17 anni, pluripremiata dall’Accademia di Francia, in un’età che allora veniva considerata attempata e cioè a 42 anni conquista Edgar Dussap, viceconsole armeno in Grecia, più giovane di lei di 5 anni che la sposa. Lo seguirà in Turchia, in Grecia (dove affiancherà il marito, durante l’assedio di Janina nel corso della guerra balcanica, nell’aiutare la popolazione civile), in Australia.Tornata in Francia, sfuggirà infine ai tedeschi durante l’occupazione nazista. Riguardo agli aneddoti, be’, le vite di questi autori ne sono piene e l’ultimo capitolo del libro ad essi dedicato ne riporta moltissimi. Forse i più numerosi riguardano Elinor Glyn, scrittrice e giornalista che intrattiene un forte rapporto con il mondo del cinema, essendo anche sceneggiatrice, produttrice e regista. Educata da una nonna appartenente all’antica nobiltà anglo-irlandese, ella sfruttò la sua conoscenza perfetta delle belle maniere per trovare un impiego a Hollywood come “coach” di diverse star. Infatti, sia attori che attrici del cinema americano di allora, prima di arrivare ad emozionare milioni di spettatori avevano bisogno di dirozzarsi per acquisire un portamento e modi raffinati e una delle star più famose che farà tesoro degli insegnamenti di Elynor Glyn, tanto da essere poi considerata un’icona di stile, fu Gloria Swanson. Un aneddoto che non ho inserito nel libro riguarda proprio questo sodalizio: non paga di vivere il mondo del cinema sempre dietro le quinte, fu proprio con la Swanson che Elinor prenderà parte a un film del 1921 diretto da Cecil B. De Mille, “Fragilità, sei femmina!”, nei panni di una giocatrice di bridge».
Se potessero scambiarsi dei doni, cosa le donne di oggi dovrebbero regalare alle signorine di allora e cosa le signorine alle donne di oggi?
«Credo che le signorine avrebbero molto da dare alle donne di oggi. Se si trattasse di doni materiali, potrebbero regalare molti begli abiti, accessori raffinati come cappelli, ventagli e sciarpe, profumi intriganti, insomma tutto quello che definiva ed esaltava la femminilità, trasformandola spesso in una dimensione magica: non credo che farebbero a cambio con i pantalonacci sguaiati, strappati o sciatti, oppure con l’abbigliamento massificato delle ragazze di oggi. Penso, anzi, che ne inorridirebbero. Se poi si trattasse di scambiarsi doni relativi alla spiritualità, le signorine potrebbero regalare la loro forza ed eleganza che impiegavano nei sentimenti, un’autonomia sempre più accentuata lungo il tempo nei confronti del mondo maschile, la difesa e la certezza dei propri valori, la dignità dell’essere donna, un sentimento puro e ingenuo dell’amore, un grande senso del decoro. Le donne di oggi potrebbero invece portare in dono le leggi in loro favore, che si sono conquistate nell’ambito della parità dei diritti sul lavoro, nella famiglia, nella società. E, anche, le nuove e svariate consapevolezze esistenziali e politiche».